....applausi in piedi....
Non è per mettere in piedi una Treccanicrazia, è questione di esser precisi: se mi trovo in laboratorio e voglio che il collega mi allunghi un recipiente, non dico “mi passi il coso di vetro?”, gli dico passami la beuta o, se proprio voglio quei dieci punti a Corvonero, passami il matraccio. Diamo un nome alle cose.
Ma chevvordi’ party game? Per quel che ne so io il party game è un gioco semplice, zero regole, zero impegno, zero strategia, zero profondità. A proposito di dare un nome alle cose: ecco cos’era quella sensazione di estraniamento durante Vudù, ecco la pesante percezione del tempo che passa (che Dalì l’abbia in gloria) tra una carta contro l’umanità e l’altra, la noia e il pendolo del buon vecchio Arthur, la voglia di avere un po’ d’alcool a sostenermi, a farmeli digerire. Ecco l’amico che non riesce mai ad entrare in partita e finisce per annoiarsi; ecco quei due che devono vincere per forza e si fregiano delle cinque carte messe in file identiche a Compatibility, ecco quello che a Dixit se ne esce con un indizio criptico che può capire soltanto un’altra persona nella stanza - guarda un po’, giusto quel passo sul tracciato che gli serve per vincere. Eccoli qua, i party game.
Son due anni che gioco, non sono tanti, ma qualche partita l’ho fatta e Gaviscon alla mano ancora non mi riesce tanto bene di digerirli. Nessuno dei ragazzi del gruppo si fa troppe domande, nemmeno Logistilla, di solito puntuale nelle osservazioni: si gioca e basta, si gioca a quel che capita credendo che giocare sia solo questo. E io, che snocciolo definizioni a destra e a sinistra?
Io non ce l’ho il coraggio di farmi avanti; no, non ce la faccio, non ce la faccio a dire che Munchkin è noioso e che Vudù lo reggo solo dopo tre bicchieri di vino ben pieni; con che faccia vado lì e rovino la festa a tutti quanti? Eppure loro si divertono tanto…
(Ma è poi vero che si divertono così tanto?)
Abbiniamo le carte bianche agli spazi liberi di quelle nere, una volta su dieci la frase ci fa anche ridere di gusto, ma resta quella sensazione di forzatura, di doverla sparare più grossa di tutti perché in questo gioco ci si diverte e noi ci stiamo divertendo, vero?Proviamo Misantropia e a spiegarlo è Doralice, che possiede la scatola. Il gioco mi attira meno di zero, ma non è gentile alzarsi e andarsene senza una valida scusa; mi siedo posizionando distrattamente i miei segnalini e sperando che il gioco sia breve, quando noto una cosa: nessuno, neanche il più motivato, sta seguendo la spiegazione, perché altro non è che un elenco di regole. Scegli questo, guadagni quest’altro, alla fine della settimana succede questo. Perfino Astolfo, sempre molto gentile, obietta che non si capisce un accidente.
CHIEDETE UNA MECCANICA E VI SARÀ DATA
L'istinto di sopravvivenza mi accende la lampadina. So che in casa c’è una copia di BANG!, mai aperta per quell’ostilità verso il nuovo e l’attitudine abitudinaria che ha un po’ tutto quanto il gruppo, ma stavolta mi faccio coraggio e propongo di cambiare. I ragazzi mi appoggiano per disperazione ma è chiaro che sono lì lì per mollare la nave.
Capisco di colpo due cose: questo momento è uno spartiacque, un testa o croce, decisivo. O si riesce a divertirsi intavolando un gioco che abbia una meccanica che sia una, o ci si saluta e si torna a passare le serate credendo di giocare ma senza riuscire mai ad ingranare - con gli orologi mollicci che tornano a farsi sentire. La seconda cosa che capisco è che devo essere io a spiegare il gioco e che devo anche farlo bene, pena il fallimento del tentativo di passare oltre, di alzare il livello, di andare al di là: il famoso passo più lungo della gamba.
Edizione deluxe con pallottolona formato culla e stella dello sceriffo in omaggio. Spariamo ‘ste cartucce.
“Allora…” prendo fiato ed espiro. “Siamo dei cowboy nel Far West e ci sono due squadre, anzi tre. I buoni, sceriffo e vice, e i cattivi. Poi c’è il rinnegato, che non sta con nessuno. Dobbiamo fracassarci di pallottole. Solo una cosa… nessuno sa in che squadra giocano gli altri.”
Orlando è il ragazzo meno nerd del gruppo; odio, e credetemi quando lo dico, odio dover usare questa parola, ma la sfrutto per veicolare il concetto in maniera rapida ed efficace: è quello che “vi voglio bene, ma non capisco il 90% delle cose che dite”. Il povero Orlando si trascina alla fine delle nostre serate, accontentandosi di partecipare e, quando gli va bene, giocare secondo le regole, che puntualmente ha difficoltà a capire e ricordare. Lo tengo d’occhio per tutto il mezzogiorno di fuoco - temo che non entri nel gioco, che il regolamento più lungo di tre righe lo scoraggi, chissà poi perché.
Gioca da vicesceriffo e viene freddato per primo. Ahia. Trascina le ciabatte lontano dal tavolo, recupera il cellulare sul divano e penso: “Ecco fatto, l’abbiamo perso”. Orlando scrolla veloce le notifiche e contro ogni previsione torna a sedersi accanto a me sul bracciolo; ci resta per tutta la partita, seguendo gli sviluppi e gridando vendetta.
Quando anche l’ultimo bastardo viene fatto fuori, fa: “No no, rigiochiamo, voglio un’altra partita!”.
Miracolo a Roma Nord. Da quella sera lui, lui che “raga Munchkin mi annoia, non capisco le regole”, “Taboo mi fa venire l’ansia”, “Risiko!? Eh…” diventa dipendente dall’adrenalina della pesca, quando tra lo sceriffo e l’ultimo fuorilegge si può intromettere la tattica, certo, ma soprattutto la fortuna di chi per primo pesca il proiettile, la birra o il cappello perforato.
Altra sera, altro gioco. Si unisce a noi Isabella, completamente digiuna di giochi da tavolo; a fine serata, dopo aver riposto Dixit, mi avvicino tutta tronfia per raccogliere le sue impressioni, avida di complimenti. Dalle cartine e clessidra del suo amato Taboo (quante volte l’ho tirato in mezzo ‘sto gioco? Santa pace) alle oniriche carte 80x120 ce ne passa e sono pronta a riscuotere il fresco suono dell’entusiasmo.
“Non male Dixit, ma giusto una partita e basta”.
Sbam! Ero lì ad aspettare il meritato "oh mio dio quanto son belle le carte" e, invece, resto a bocca asciutta, impalata come uno stoccafisso. Gli altri hanno deciso di lanciarsi in un giro di C’era una volta; conscia che l’attenzione di tutti calerà a picco nel giro di cinque minuti, decretando forse la morte della serata, mi metto da parte e ripenso un po’ alle parole di Isabella.
“Una partita e basta.”
Se bisogna chiamare le cose col loro nome, allora è al filler che dobbiamo chiedere di riempire gli spazi tra una fetta di pizza e l’altra, al bluff di farci scoprire che la natura dell’uomo è malvagia e siamo tutti voltafaccia senza scrupoli, a For Sale e Semenza quel brivido DiCapriano da lupo di Wall Street. Sono loro che, da soli, hanno il compito di reggere la serata e trasformare la quarta dimensione da una serie di molli e pesanti orologi ad un ticchettio sommesso di cui nessuno si accorge; nel migliore dei casi, quando l’ora tarda si presenterà a riscuotere, tutti l’accuseranno di tirannia.
Lasciamo i party game liberi di essere solo e soltanto dei party game.
PROMEMORIA, PROMEMORIA PER ME
Io sottoscritta Idina Prentzel, nata un quarto di secolo fa in una valle tra selvatiche colline brulle, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e della capacità di intendere e di volere, allo scopo di salvaguardare la dignità della mia persona, intendo rivendicare il sacrosanto diritto ad una distensiva e priva di punteggi partita a Dream On! dopo la terza rivincita ad Agricola conclusasi 44-45. In fede.