Si potrebbe disquisire per ore de Il trono di spade, dei suoi intrighi, del sangue e delle copule.
La verità è che, de Il Trono di spade, in questo gioco c'è solo la facciata.
Il punto è che tanto basta.
Lupo ulula, Bruno Cathala
Bruno Cathala, che è un volpone, sa bene che ben poco, di questi tempi, ha la presa emotiva della saga iniziata e mai finita da George R.R. Martin, sublimata dallo strepitoso successo della serie tv targata HBO; non stupisce dunque che tale ambientazione, per quanto posticcia, abbia dato una veste notevole al nuovo gioco del re dei riempitivi.
Ne
Il trono di spade: il primo cavaliere l'idea è quella di far competere
da due a quattro giocatori per ottenere il prestigioso
incarico di primo cavaliere del re dei sette regni (ruolo che, come noto, nella versione originale è in realtà quello della mano del re, ossia di un vero e proprio facente funzioni, in fase di traduzione giudicato evidentemente troppo pruriginoso).
Il gioco, in origine Fantasy Flight, nata dalle fustelle, prima delle sue licenze, è stato localizzato in italiano da Asterion. Nella scatola, delle dimensioni di una smartbox scaduta, ci sono trentacinque carte quadrate (il sette per sette delle centrali di Alta tensione, per capirsi) raffiguranti altrettanti personaggi delle Cronache del ghiaccio e del fuoco (perché, a onor del vero, l'ispirazione sono i libri - o forse i film, ma ci sono personaggi che non ricordo minimamente e quindi va bene così), rappresentanti delle sette casate principali di Westeros e tra queste suddivisi in numeri successivi - dai due Tully agli otto Stark. La trentaseiesima carta - che con le precedenti va a formare Approdo del Re, ovverosia un gioioso quadrato sei per sei - è quella di Varys, il pettegolo consigliere noto per una vistosa mancanza - e per essere pelato.
Vi sono poi quattordici carte di piccolo formato, raffiguranti altri personaggi più o meno centrali nella vicenda, qui nella veste di compagni; tra di essi Jon Snow, Hodor, Khal Drogo, Armando Cossutta e Fausto Bertinotti. Infine, sette stemmi di casata e quattro segnalini corvo con tre occhi, in cartone piuttosto spesso.
Le
illustrazioni, curate da Mihajlo Dimitrievski, sono
molto belle e, pur nel loro essere fumettose, riescono a trasmettere fisionomie, caratteri e talvolta perfino intenzioni dei personaggi raffigurati. Ottima componentistica, in definitiva, sebbene con la piccola pecca delle dimensioni eccessivamente piccole delle carte compagno - posso intuire dovuta a esigenze di stampa -, soprattutto in virtù del fatto che proprio su quei coriandoli vi sono le uniche scritte del gioco (gli effetti sono tuttavia relativamente intuibili anche da chi non mastica granché l'inglese).
Liscia o casata?
Il regolamento, che ha le dimensioni del bugiardino dell'Oki Task, è scritto molto bene ed è più illustrato della Domenica del Corriere; va detto che il gioco si impara nel tempo di un paio di decapitazioni della serie, quindi non è che ci troviamo davanti a chissà quanta complessità - né del resto ce la attendiamo da quello che è un riempitivo da quindici-trenta minuti.
Nel proprio turno, un giocatore deve
muovere il buon
Varys lungo una direttrice verticale od orizzontale, fino a fargli prendere il posto di uno dei personaggi che popolano il micromondo nobiliare di Approdo del Re. Nel fare ciò, egli
tiene per sé la carta così recuperata e tutte quelle della medesima casata sorvolate dal baldo consigliere. A questo punto, se il giocatore ha la maggioranza (anche uguagliata) di personaggi di quella certa casata, può pure arraffarne lo stemma.
Quando uno dei partecipanti si assicura i favori dell'ultimo personaggio di qualsivoglia casata rimasto nella capitale, egli si arroga pure il diritto di poter
scegliere un compagno tra i sei disponibili in partita e di eseguirne l'effetto. In genere, tale effetto permette di poter chiamare a sé un certo personaggio (per esempio Hodor chiama Bran Stark, mentre Loras Tyrrell può invocare un famigliare o il suo amante Renly Baratheon); in altri casi il compagno può valere come un megamembro di una casata (tu-non-sai-niente-John-Snow); oppure, ancora, può garantire vantaggi quali il turno aggiuntivo (Melissandre), l'evocazione di un compagno disperso oltre la scatola (Petyr Agzaroth Baylish) e finanche una tripletta di omicidi mirati (il tizio senza nome ma con gli apostrofi): si tratta senza dubbio della componente più ambientata del gioco.
Quando Varys non può più compiere mosse valide, il gioco finisce e il primo cavaliere è il giocatore che a quel punto ha più stemmi davanti a sé. In caso di pareggio, vince chi ha il sostegno della casata più numerosa.
L'apprezzata variante a squadre - due contro due, con vittoria di coppia - prevede, volendo, l'utilizzo dei segnalini corvo a tre occhi (uno per giocatore) per poter confabulare col compagno sulla strategia da adottare, mentre il gioco deve per il resto svolgersi in silenzio.
Un gioco non ha un'ambientazione
Nell'introduzione ho parlato di ambientazione paracula; lo confermo qui: sulle carte de Il primo cavaliere ci potrebbe essere di tutto: fiori, frutti, animali, cialde di caffè, edizioni di Agricola, libri di Mauro Corona, allenatori dell'Inter, correnti del Pd. Sarebbe lo stesso.
Eppure,
questo pur vago sentore de Il trono di spade come fosse olezzo di pecora in una tiepida giornata ventosa, quel paio di effetti delle carte compagno e gli stemmi delle casate sono più che sufficienti a dare
una marcia in più a quello che, in definitiva, è un riempitivo altrimenti astratto.
Di per sé, la meccanica principale non brilla per originalità, né per carisma: si tratta di spostare una carta in barba alle leggi dell'ergonomia e di raccoglierne una o più dal tavolo, posizionandole di fronte a sé, a formare una sorta di corte; il tutto con lo scopo di ottenere la maggioranza dei rappresentanti delle singole casate - fine ultimo, questo, richiedente una buona dose di elucubrazione onde ritrovarsi, al momento cruciale, con più stemmi degli avversari. Su questa struttura è ulteriormente innestato il bel giochino delle carte compagno a dare un po' di spessore tattico e, talvolta, anche un pelo di cattiveria (sempre che il tutto non sia vanificato dall'aver a disposizione, quando se ne può usufruire, di effetti poco più che inutili - del tipo possedere già un personaggio arruolabile).
Va da sé che, per quanto detto e al netto della variante a coppie, il gioco dà il suo meglio in due giocatori, mentre in tre e, soprattutto, in quattro viene un po' meno quel senso di controllabilità che permette di dare quel pur minimo indirizzo strategico alla partita.
L'interazione, come si può intuire, è tutt'altro che trascurabile: non solo grazie a quella manciata di effetti attivabili, ma anche - e soprattutto - muovendo in maniera ragionata il buon Varys, in maniera tale da sfavorire il gioco altrui - e si sa, al gioco del trono, o si vince, o si rimettono i componenti nella scatola.
Un accenno lo merità la
rigiocabilità, parecchio alta: da una parte, le tantissime permutazioni possibili per Approdo del Re e, dall'altra, la scelta di sole sei carte compagno su quattordici garantiscono partite sempre diverse.
Tra i difetti, oltre all'ergonomia già citata che vabbè, è pignoleria, e all'astrattezza mascherata del titolo, tornerei un attimo sulla dimensione delle carte. Personalmente, come ho detto, avrei gradito una dimensione maggiore per i compagni; ma c'è chi è del parere contrario - ossia ritiene che sono i personaggi a essere troppo grandi. Costoro non hanno tutti i torti, perché tra Approdo del Re e le aree personali questo gioco dalla scatola irrisoria arriva a coprire un'estensione paragonabile a quella del Nord.
Un gran bel riempitivo, insomma, questo Il trono di spade: il primo cavaliere; non da far gridare al miracolo, sia chiaro, ma uno di quei titoli che, complice la durata irrisoria della partita, si gioca sempre volentieri.
Ai simpatici Greyjoy tu resistere non puoi
Si potrebbe disquisire per ore de Il trono di spade, delle sue macchinazioni, del vino e dei draghi, dei noiosi impiegati che ora si ritengono amanti del fantasy e degli amanti del fantasy che si rifiutano di essere accostati agli impiegati noiosi.
Ma tutti questi ragionamenti andrebbero perduti nel tempo, come lacrime nel soffritto di cipolla.