Di seguito la seconda parte dell'articolo sulla storia dei giochi pubblicato sul blog Imago Romae.
La prima parte era stata postata qui.
Buona lettura.
Giochi popolari e cortesi nel medio evo
Si è accennato sopra [nella prima parte, ndMikimush] ad alcuni problemi e ruoli del gioco medievale, che oltre a costituire una naturale e amata distrazione alla vita regolare e cadenzata dell’uomo in ambito cittadino, campagnolo e cortese, dava luogo pure a una minaccia compresa alla tranquillità dell’ordine cosmico e alla religione.
Se nella città tale istituzione sociale veniva organizzata e regolata nella baratteria, con notevole vantaggio dello stato, essa veniva viceversa proibita e relegata a poche occasioni lecite, spesso in connessione a festività religiose nel mondo rurale.
Solo nella corte essa veniva in qualche modo liberata da tali condizionamenti e praticata con maggiore libertà.
La differenza è che il Signore e la corte, o il patriziato, hanno molto più tempo da dedicare a questa attività, il tempo che l’uomo comune dedica al lavoro.
Al di fuori della politica e della guerra, attività comunque ristrette al Principe e a una cerchia di fedeli esecutori, consiglieri, magistrati, segretari e condottieri, la vita di corte sembra risolversi tra cacce, tavole imbandite, giochi ed il piacere.
Oltra di ciò, sì come tra’ boschi spesse volte addiviene, muovendosi d’una parte volpi, d’altra cavriuoli saltando e quelli in lqua et in là con nostri cani seguendo, ne trastullammo, insino che agli usati alberghi da compagni, che a la lieta cena n’aspettavano, fummo ricevuti; ove dopo molto giocare, essendo da gran pezza la notte passata, quasi stanchi di piacere, concedemmo alle esercitate membra riposo.[1] <?xml:namespace prefix = o ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:office" />
Ma poi che con la abondevole diversità de’ cibi avemmo sedata la fame, chi si diede a cantare, chi a narrare favole, alcuni a giocare, molti, sopravinti dal sonno, si addormirono.[2]
Un esempio emblematico di questo aspetto della vita dei principi, viene descritto da Decembrio nella sua Vita di Filippo Maria Visconti:
Fin da quando era bambino usò giocare ora a palla, ora a pallone, ma soprattutto a carte….gli piaceva giocare anche agli astragali, genere di gioco che, per il suo richiamo omerico, ha trovato estimatori anche recenti[3]. Nei giorni festivi talvolta giocava a dadi mentre, più che giocare preferiva assistere alle partite con quelli che la gente chiama scacchi.[4] Pochi Signori sembrano tener conto di consigli quali quelli che il Sacchetti ai suoi tempi dava ai rettori che vanno in signoria: E nel principio abbi la tua famiglia; / dell’onor tuo gl’informa e consiglia: /che gioco non si tegna nella corte.[5] Tra le persone che frequentano la corte, i cortigiani e le cortigiane di basso rango, segretari, famigli, dame di compagnia e prostitute, strumenti di necessità o di piacere dei loro Signori, sono apprezzati finché si fanno apprezzare. L’imperativo è per loro di apparire brillanti e simpatici, piacevoli ed arguti. Tu dispari, se non appari[6], sentenzia il poeta. Il gioco è utilissimo per questo.
Se non è facile dosare la propria presenza nei divertimenti dei potenti, dove occorre apparire modesti ma arguti, come consiglia il Castiglione nel suo libro del Cortegiano, si può sperare in un colpo di fortuna che schiuda le porte ad una amicizia importante e ad una conseguente carriera brillante nel seguito di un ambasciatore, di un sovrano o di un cardinale.
Nella corte i problemi etici connessi al gioco sono meno sentiti. Il Castiglione ce ne tratteggia bene la sostanza in un suo brano esemplare:
“Dimandiamone consiglio a frate Serafino, che ogni dì ne trova de novi”. “Senza motteggiare”, replicò il Signor Gasparo, “parvi che sia vicio nel cortegiano il giocare alle carte e ai dadi”?“A me no,” disse messer Federico, “eccetto a cui nol facesse troppo assiduamente e per quello lasciasse l’altre cose di maggior importanzia, o veramente non per altro che per vincer denari, ed ingannasse il compagno e perdendo mostrasse dolore e dispiacere tanto grande, che fosse argomento d’avarizia”.[7]
Il Cortegiano, insomma detta due regole d’oro per rendere utile la pratica del gioco nell’ambiente di corte: non trascurare i propri doveri e non mostrare avidità.
Si aggiunge poi un terzo punto che esplicita in un altro passo della stessa opera, evitare il linguaggio volgare e specialmente la bestemmia: la beffa-punizione molto severa di un bestemmiatore, non a caso estraneo all’ambiente patrizio – un sempliciotto pistoiese – cui due compagni fanno credere di essere diventato cieco a causa delle bestemmie proferite a seguito della perdita al gioco contro la Vergine.[8]
Di questi giocatori violenti e sediziosi, la corte volentieri si ride, per esorcizzarne il turbamento.
Ci si può chiedere ora se i giochi delle corti fossero gli stessi che si praticavano nelle strade e nelle taverne.
Possiamo confrontare tre documenti interessanti su questo tema.
Taddeo e Farfanicchio, due personaggi di una Cena del Lasca, ci danno un curioso elenco di giochi popolari praticati alla metà del XVI secolo a Firenze, città che appare da molte testimonianze storiche un po’ la capitale del gioco popolare, così come Milano e Ferrara sono le capitali del gioco patrizio.
Si può notare che a detta degli stessi personaggi molti giochi passavano presto di moda e venivano rimpianti dai vecchi giocatori, desolati allo spettacolo dei nuovi e più stupidi giochi praticati dai giovani: un luogo comune di ogni generazione.
Taddeo: …Il Teri giocava agli aliossi a suo tempo meglio che giovane di Firenze, come faceva io a’ ferri, che non si diceva altro che Taddeo; ed aveva una detta che squillava gli aguti cinquecento braccia discosto.Farfanicchio: Ah, ah, ah, ah.Taddeo: tu ridi? Farfanicchio: O chi non riderebbe ai giocacci che voi contate?Taddeo: Giocacci gli aliossi e i ferri?Farfanicchio: Dalle carte e i dadi in fuori…Taddeo: Che carte e che dadi? Il giuoco dei ferri[9] ha tanti capi che tu ti meraviglieresti, e tra gli altri il buco a capo alla punta, e in terra peggio, e poppa lo stecco, passano battaglia. Ma favellare con chi non intende è uno gettare via le parole, perché questo bel giuoco, con molti altri è ora spento affatto.Farfanicchio: Che? Voi ne avete degli altri begli simili a questo?Taddeo: O caro! Che mi di’ tu? E a tempo mio erano i giuochi ordinati secondo le stagioni e i mesi: chiose, spilletti, trottola, paleo[10], soffio, giglio o santo[11], mattonella, meglio al muro, verga, misurino, aliossi, rulli, ferri e cento altri, che erano tutti giuochi da perdere e da vincere; ma quelli che si facevano per passatempo e per piacere erano bellissimi, che sono oggi quasi tutti quanti perduti[12]. Grazzini divide i giochi in due categorie: quelli per vincere o perdere, e quindi in qualche modo d’azzardo, anche se con poste minime – e quelli per piacere, che erano anche più belli.
Dei quindici giochi da lui nominati, ne conosciamo bene quattro: dadi, carte, aliossi[13] e trottola. Degli undici restanti, almeno cinque portano un nome che porta un assonanza con termini ancora usati, ma in altri contesti; ad esempio, chiose.
Il brano interessa particolarmente perché, descrivendo giochi da strada e da ragazzi, dimostra come anche le carte, i dadi e gli aliossi, possono essere inseriti e considerati in un contesto diverso da quello in cui ci siamo abituati a considerarli, cioè gioco di corte o di taverna, ma sempre gioco da grandi.
È notevole l’importanza data agli aliossi che sappiamo essere un antenato dei dadi, la cui economicità (erano fatti di osso di agnello non lavorato, di noccioli di frutta o di legno) gli ha garantito una sopravvivenza millenaria.
Un caso singolare in un panorama ludico molto variabile.
Un altro elenco di giochi molto sugoso e triviale ce lo dà addirittura il genio dai molteplici interessi di Giordano Bruno. Barra, personaggio de Il Candelaio, ci rivela una usanza furbesca ma rischiosa di alcuni viaggiatori poco equipaggiati dell’epoca: giocare con l’oste per rivincergli il costo della cena.
Barra: ….- Ma io che non so tanto di rettorica, solo soletto, senza compagnia, l’altr’ieri, venendo da Nola per Pumigliano, , dapoi ch’ebbi mangiato, non avendo tropo buona fantasia di pagare, dissi al tavernaio: “Messer osto, vorrei giocare”. “A qual gioco” disse lui ”volemo giocare? Cqua ho de tarocchi”. Risposi: “A questo maldetto gioco non posso vencere, perché ho una pessima memoria”. Disse lui: ”Ho di carte ordinarie”. Risposi: “<?xml:namespace prefix = st1 ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:smarttags" />Saranno forse segnate, che voi le riconoscerete. Avetele che non siino ancora state adoperate?” Lui rispose de non. “Dunque pensiamo ad altro gioco”. “Ho le tavole sai”? “Di queste non so nulla”. “Ho de scacchi, sai”? “Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo”. Allora gli venne il senapo in testa: “A qual, dunque, diavolo di gioco vorrai giocar tu proponi”. Dico io: “A stracquare e pall’e maglio”. Disse egli: “Come, a pall’e maglio? Vedi tu cqua tali ordegni? Vedi luoco da posservi giocare”? dissi: “A la mirella”? “Questo è gioco da facchini, bifolchi e guardaporci”. “A cinque dadi”? “Che diavolo di cinque dadi? Mai udivi di tal gioco. Si vuoi giochiamo a tre dadi”. Io gli dissi che a tre dadi non posso aver sorte. “Al nome di cinquantamila diavoli”, disse lui ”si vuoi giocare, proponi un gioco che possiamo farlo e voi ed io”: Gli dissi: “Giochiamo a spaccastrommola”. “Va’” disse lui “ché tu mi dai la baia: questo è gioco da putti, non ti vergogni”? “Or su, dunque”, dissi, “giochiamo a correre”: “Or questa è falsa”: disse lui. Ed io soggionsi: ”Al sangue dell’Intemerata che giocarai”![14]
Bruno elenca dieci giochi. Tarocchi, carte ordinarie, tavole, scacchi, e dadi (distinti tra gioco a cinque dadi, che l’oste non conosce e che dovevano essere una novità, e gioco a tre dadi – qui non chiamato zara – che sappiamo comune sin dal XIII secolo), sono i primi da lui indicati, e coincidono con quelli indicati dal Poliziano e dall’Aretino; segno di una uguaglianza tra giochi praticati dall’aristocrazia e dal popolo – che non necessariamente è solo borghesia dei centri urbani, ma anche gente di paese o viaggiatori.
Stracquare, pall’e maglio, mirella e spaccastrommola, sono poi nomi gergali che indicano verosimilmente giochi di movimento e non da tavolo, probabilmente di uso locale, come quelli nominati dal Lasca.
Sostanzialmente, sembra dunque che per quanto riguarda i giochi di carte, dadi, scacchi e tavoliere e affini, li si ritrova praticati con una sostanziale uniformità nei vari ambienti sociali, popolari, cortesi ed ecclesiastici ed in un arco di tempo di secoli. Esiste è vero una grande varietà di possibili varianti dei diversi giochi, ma tali varianti non sembrano tipiche di un particolare ambito sociale. Persino la zara, che sembra il gioco più tipico di una baratteria plebea, coinvolge anche nobili e preti.
A differenza dei giochi di movimento, tipici dei giovani popolani che si svolgono in strada ed in piazza, che invece sembrano variare di molto, a seconda del tempo e dei luoghi, dai corrispondenti svaghi della gioventù aristocratica, che pratica tornei, palli e cacce più legate ad un preciso cerimoniale legato a cerimoniali di natura gerarchica.
Si ha inoltre l’impressione, confortata da molte fonti, che il gioco costituisca una parte importante della vita anche quotidiana dell’uomo comune. Che la gente vi si dedichi con entusiasmo e spensieratezza non meno che nel mondo cortese.
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[1] Iacopo Sannazzaro (1455-1530) . Arcadia. Prosa 5, 2.
[2] Iacopo Sannazzaro. Arcadia. Prosa 6,2.
[3] Si noti come Decembrio sembra qui voler giustificare la pratica del gioco degli astragali da parte del suo principe, usanza non tanto eticamente dubbia, ma piuttosto bizzarra in quanto plebea e per di più infantile, con il “richiamo omerico” che la nobilita e la giustifica. Cfr. supra, pag 25 e nota n.5 di questo capitolo.
[4] Pier Candido Decembrio. Vita di Filippo Maria Visconti ( a cura di Elio Bartolini). Adelphi . Milano 1983. Cap. LXI, pag. 113.
[5] Franco Sacchetti. Rime. 307 Franco per li rettori che vanno in signoria, 11-13.
[6] Angelo Poliziano. Detti piacevoli. Detto 410.
[7] Baldassarre Casteglione. Il Libro del Cortegiano. Secondo libro, XXXI.
[8] Baldassarre Casteglione. Il Libro del Cortegiano. Secondo libro, LXXXVI.
[9] Forse si tratta del lancio di ferri di cavallo. Mi piace segnalare che mio nonno Vincenzo mi raccontava che questo gioco si praticava con complicati rituali, ancora verso il 1910 a Segni, nel Lazio.
[10] Una variante della trottola, fatta di legno e grossa come il pugno di un adulto, senza punta metallica: risale almeno all’età della Grecia classica. Vedi: Dossena. Enciclopedia, cit., pag.857 alla voce Paleo. Un’antica filastrocca dice: e la trottola non è il paleo / e il cristiano non è il giudeo, a significare che i due giochi, benché simili, possono apparire la stessa cosa solo agli occhi del profano, che non li pratica più.
[11] Testa o croce.
[12] Anton Franceso Grazzini, detto il Lasca (1503-1584). La Strega. Atto 2, scena 1, 25-33.
[13] Sinonimo di astragalo, dal latino, aleae ossum, ovvero osso di scommessa.
[14] Giordano Bruno (1548-1600) . Il Candelaio. Atto 3, scena 8, 20.