D'accordo con te, ma mi permetto un'osservazione ottimistica: le case editrici possono essere paracule quanto vogliono, ma grazie al cielo la mediocrità viene dimenticata in fretta, mentre i prodotti di qualità durano nel tempo. Spiace un po' per chi si accontenta sempre e comunque della solita minestra riscaldata, ma sono fatti loro.
Tempo fa un amico presenta un prototipo a una casa editrice. L'editore era quello giusto, il gioco funzionava, le idee c'erano, il prototipo era ben sviluppato. Il gioco è piaciuto, ma l'obiezione principale è stata: «Questo gioco è troppo tecnico, vince sempre chi è più bravo; devi inserire un qualche meccanismo per cui anche chi è alla prima partita o non conosce le carte possa vincere.»
Ma lui voleva fare un gioco tecnico, in cui il più bravo vince, in cui chi ha studiato le carte fosse meritevolmente avvantaggiato.
E qui mi torna in mente una delle risposte datemi dagli autori della Splotter Spellen in un'intervista, ovvero che i primi turni devono essere importanti e decisivi tanto quanti gli ultimi, altrimenti tanto vale non giocarli nemmeno.
Ancora: le app tanto apprezzate da molti, che riducono la difficoltà di gestione dei nemici, del sistema di gioco, ecc. Lascio da parte setup e desetup, perché non fanno parte del gioco giocato, anche se ci sarebbe da discutere sul sottile piacere che si ha nel preparare il tavolo prima dell'arrivo degli amici.
Limitiamoci alla gestione del gioco dal punto di vista del giocatore e del game designer:
- il giocatore scopre una carta, tira un dado per un nemico sperando di fare basso, muove fisicamente un pezzo, applica una regola che ha studiato per essere sicuro di eseguire bene la parte del gioco. Ecco, quando si studia un regolamento senza app, ci si deve applicare anche in quella parte di bookkeeping che è la gestione del nemico o del sistema in generale. Può essere noiosa, ma spesso ha il vantaggio di farti riflettere meglio sui meccanismi di gioco, di farti conoscere bene come agirà questo “contorno”, in un certo modo di farti progredire nella tua padronanza delle meccaniche;
- il game designer dovrà trovare soluzioni e idee che rendano bene la variabilità e l'imprevedibilità, ma senza appesantire troppo la gestione e a volte alcune di queste idee non sono solo brillanti ed efficaci, ma possono anche essere spunto per altri titoli.
Poi ci sono i giochi che l'editore stesso definisce pesi medio-leggeri e leggi in qualche recensione “è un bruciacervelli” (Wingspan).
Allora ripensi alle tue partite ad Antiquity e ti chiedi come poteva essere definito quello, di gioco.
Infine guardi lo scaffale, vedi El Grande e ti ricordi che nel '96 ha vinto lo Spiel des Jahres. Lo Spiel, ovvero il premio per famiglie. Ti consoli pensando che ai tempi non esisteva il Kenner, che almeno avrebbe vinto quello, ma non puoi fare a meno di guardare i vincitori dello Spiel degli ultimi anni e chiederti quanta differenza ci sia tra quelle e queste famiglie.
Che poi El Grande... quattro pezzi di legno, una grafica da paura (nel senso letterale), una manciata di cubi. Oggi pare che se non hai pezzi di plastica, grafica super e illustrazioni come quadri, un gioco non sia nemmeno da prendere in esame.
Mi sembra che tutti i giochi – quasi tutti, dai – che vengono proposti abbiano limitato le scelte, limitato l'interazione per non essere frustranti, limitato i meccanismi punitivi, limitato l'impatto dell'esperienza, limitato il plus dato dalla bravura.
Laddove un gioco vuole proporsi per giocatori, lo fa spesso non aumentando la profondità, ma solo incrementando il numero di cosa da fare, mentre la complessità di gioco rimane superficiale, aumenta solo la complicazione. Così ti trovi giochi vastissimi, enormi, appariscenti... ma piatti.
Il gioco è un prodotto d'intrattenimento destinato non più a una nicchia di appassionati, bensì a una massa di occasionali. Come tale deve essere subito oggetto di hype, deve essere subito digeribile, subito chiacchierato, subito apprezzato, subito diffuso. Subito a prova di dummy.