Diesci! Standing Ovation per Phil!
È legittimo chiedersi se il gioco da tavolo oggi ha ancora senso di esistere. Togliamoci dalle spalle tutta la retorica romantica sulla repulsione della modernità e ammettiamolo chiaramente: il gioco da tavolo è scomodo, ingombrante, pesante, costoso. Il confronto con il videogioco è impietoso. Grazie alla potenza della tecnologia, il videogioco, senza occupare spazio fisico (ormai non ci sono neppure più i CD), gestisce la complessità di mondi vastissimi, sollevando il giocatore da qualsiasi occupazione che non sia decidere che fare. Non esiste setup, non bisogna portarsi la scatola in giro per il mondo, non si deve perdere tempo a spostare pezzi in giro per il tavolo (bookkeeping) e soprattutto non si possono sbagliare le regole.
Un campo in cui la superiorità del videogioco diventa sempre più netta è poi quello della simulazione. Quando il gioco da tavolo deve accontentarsi di poche regolette, perché ai giocatori non puoi chiedere di svolgere grandi calcoli, il videogioco riesce a riprodurre alla perfezione esperienze di qualsiasi tipo, dalla corsa di auto al lancio di un razzo.
Infatti, possiamo dire che è scientificamente impossibile che un gioco da tavolo riesca a simulare una missione di esplorazione spaziale bene quanto ci riuscirebbe un videogioco.
Ma Phil Eklund non lo sa e crea un gioco che ci riesce lo stesso.
High Frontier 4 All, a dispetto del titolo, non è per tutti. Simula la competizione per l’esplorazione spaziale e combina uno dei tabelloni più spettacolari della storia dei giochi da tavolo con una componentistica ai limiti dell’orripilante. Anche in questa recensione, come nelle mie precedenti, mostrerò il gioco dalla prospettiva del solitario, pur facendo presente che al tavolo possono sedersi fino a cinque avversari.
Il gioco sarebbe competitivo, ma in solitario si usa affrontarlo con la variante apposita che indica un livello di punteggio per considerare la partita vinta. In realtà il numero risulta arbitrario, giacché a seconda dei moduli di espansione che si inseriscono anche la quantità di punti che si ottengono varia molto. Consiglio quindi di viverla più come una sfida contro sé stessi. Per la partita in solitario, suggerisco vivamente di usare la variante riportata nelle living rules, perché le regole per l’acquisizione nei brevetti riportate in appendice del regolamento stampato sono troppo punitive.
High Frontier è in inglese, e non aspettatevi che qualcuno lo localizzi.

Attrezzatura per il decollo
Lo si sarà intuito: High Frontier è un gioco che può ingannare. Lo precede una discreta fama, tanto che c’è il rischio di restare delusi aprendo la scatola: ci sono parecchi manuali, un tabellone, una fustella che si scoprirà essere utile per il solo scenario introduttivo, un po’ di carte, una manciata di pezzi in cinque colori dall’aspetto spartano (cubetti, cupolette, due razzetti, e dei terribili gettoni in stile monete di Wallace), altri gettoni alla Wallace rossi trasparenti, un dado e infine delle gocce d’acqua plasticose che sarebbero state perfette per Barrage.
La meraviglia si palesa però all’apertura del tabellone, che riproduce in una mappa mirabolante l’intero sistema solare fino a Plutone, asteroidi inclusi. I vari oggetti del sistema solare (pianeti, asteroidi, comete), già molti di per sé, sono uniti da un numero ancora più grande di linee a volte curve, a volte angolate, a volte concentriche. Nella sua interezza non è un tabellone intuitivamente comprensibile, ma non dovrebbe incutere timore, perché non è qui che stanno le difficoltà.
Sistema di gioco
High Frontier 4 All è essenzialmente un pick-up-and-delivery. Si basa su un sistema di stack (orbita terrestre, razzo e avamposti) dei quali solo uno almeno nel gioco base si può muovere. Il cuore del gioco è portare i pezzi giusti nelle parti del sistema solare dove servono.
Una partita vive essenzialmente due fasi, una prima in cui si acquisiscono tecnologie per montare un razzo e una seconda in cui si viaggia per il sistema solare cercando di spargervi la propria presenza. Ciò viene fatto acquisendo carte (“brevetti”) che permettono di utilizzare certe tecnologie. Per montare un razzo funzionante bisogna montare a un propulsore una catena di supporto adeguata, che può includere generatori, reattori e radiatori. Oltre a questi, è possibile caricare su un razzo dei robonauti per l’esplorazione e delle raffinerie per la costruzione di fabbriche su altri pianeti o asteroidi.
A seconda del propulsore si avrà una certa velocità, modificata dal peso complessivo del razzo, e un consumo di propellente. Il propellente è l’acqua, che è anche la valùta del gioco. Ovviamente, anche l’acqua concorrerà ad aumentare il peso del razzo, quindi non è possibile lanciare mastodonti con l’idea di farli arrivare su Nettuno. Piuttosto, le missioni vanno calibrate con attenzione, identificando destinazioni plausibili nella consapevolezza che tutto può andare storto lo stesso.
Arrivati su un oggetto extraterrestre lo si può esplorare. Se l’oggetto è piccolo l’esplorazione sarà difficile, se è grande potrebbe essere complicato decollare a causa dell’attrazione gravitazionale. Capiterà nelle prime partite di accorgersi che il vostro razzo pieno di speranze si è impantanato in qualche pianetoide troppo attrattivo. È parte del processo di apprendimento.
Se su un oggetto esplorato si portano un robonauta e una raffineria funzionanti si può costruire una fabbrica, se si portano esseri umani una colonia. Una fabbrica extraterrestre viene utilizzata per produrre componenti extraterrestri, che altro non sono che i brevetti che già si possiedono in versione potenziata, secondo quanto riportato sul retro nero di ogni carta. La produzione non è libera: a seconda del “tipo spettrale” del sito extraterrestre è possibile produrre solo alcuni oggetti. Questi possono essere portati sul Terra per essere venduti a gran prezzo, o far diventare componenti di razzi più efficienti.
Nel gioco base la spedizione dei componenti extraterrestri verso la Terra è immediata con l’utilizzo di una specifica azione; questa è l’unica astrazione che ho trovato fastidiosa: in un gioco così accurato stona parecchio vedere pezzi che si teletrasportano da una parte all’altra del sistema solare. Il modulo 1 risolve questo problema inserendo i freighters, cargo spaziali lenti ma economici per spostare materiale tra i propri siti. Oltre a questi, l’espansione aggiunge i propulsori GW, alimentati a energia nucleare, che permettono di raggiungere più velocemente le parti più lontane del sistema solare. Infine sempre nel modulo 1 troviamo i Futures, obiettivi addizionali per accumulare più punti vittoria.
Il modulo 2 è focalizzato sulla colonizzazione attraverso l’introduzione dei Bernal, colonie orbitanti che modificano profondamente alcuni parametri di gioco fornendo una rendita fissa e fungendo da base orbitante per molte azioni del giocatore (senza dover per forza gestire tutto in atmosfera bassa terrestre). La costruzione dei Bernal permette di pescare delle carte colono (umano o robot) con effetti ancora più vari sul gioco.
L’utilizzo delle espansioni appesantisce non di poco la gestione della partita (si passa da uno ad almeno tre oggetti in movimento sulla mappa – e dico almeno perché con un’opportuna tecnologia tutte le fabbriche diventano mobili) e il numero di possibilità da vagliare mentalmente prima di ogni mossa aumenta esponenzialmente. D’altra parte, la sensazione di appagamento diventa totale. Non posso invece fare commenti sul modulo 3 dedicato al conflitto, perché non è applicabile alle partite in solitario.

Un gioco per tutti, sì, come no
La dicitura “4 All” nel titolo farebbe riferimento all’attenzione che è stata posta per rendere più accessibile possibile il gioco, attraverso la creazione di un minigioco introduttivo e uno scenario tutorial guidato in cui i giocatori seguono una partita reale descritta in uno dei regolamenti. A conti fatti, definire il gioco “per tutti” è un po’ pretenzioso: vero che il materiale aiuta nell’apprendimento, ma la mole di regole è tale che serve comunque un certo sforzo per l’apprendimento.
Non sono regole difficili prese singolarmente, sono semplicemente tante. Bisogna tenere presente il singolare approccio di Eklund al gioco da tavolo nel senso “simulativo” che piace a lui. Questo vuol dire prendere tutti i concetti a cui siamo tanto affezionati di eleganza, linearità, complessità ma non complicatezza, easy to learn hard to master, farne un bel pacchetto e buttarli nel cassonetto. Qui non si fanno astrazioni strampalate per far giocare a lanciare i razzi, non ci sono quattro o cinque meccaniche scelte a simpatia con appiccicata un’ambientazione spaziale per avere la scusa di fare i disegni coi pianeti. Per Eklund il gioco è una cosa seria: nel gioco si deve riprodurre la realtà in tutta la sua crudezza, senza nessun compromesso, tutto il resto passa in secondo piano. L’eleganza, il bilanciamento, sono cose da mammolette. Perché se nella realtà tu NASA lanci un razzo splendido ma sfortuna vuole che appena fuori dall’atmosfera viene investito da una tempesta di radiazioni, il tuo razzo diventa un cassonetto di spazzatura tecnologica. E se nel frattempo i russi tirano un calcio a un bidone spaziale fatto di pezzi attaccati con la Cocoina, ma scampano ogni sventura e arrivano su Marte, tu, cara NASA, te la prendi in quel posto e stai pure zitta. La vita reale non perdona, Eklund nemmeno.
Con ciò non intendo che il gioco sia totalmente casuale e incontrollabile a causa dell’alea. Anzi, giocare in maniera accurata, calcolando bene i percorsi dei razzi prima della partenza, scegliendo bene i brevetti per la costruzione del razzo, individuando le giuste destinazioni per costruire le fabbriche sono tutti fattori determinanti nell’aumentare considerevolmente le probabilità di successo. Basta ricordare che pur sempre di probabilità si parla.
Le miriadi di regole che riguardano ogni possibile aspetto della missione spaziale servono a rappresentare questo e giocando ci si renderà conto che rappresentano davvero la migliore astrazione possibile che non ceda più del minimo necessario all’accuratezza della simulazione. Ci sono così regole per il viaggio dei razzi, per l’atterraggio specie in siti con elevata gravità, per il decollo, per l’esplorazione, per l’installazione di colonie e fabbriche, per la costruzione di razzi; regole che si moltiplicano ulteriormente con l’aggiunta dei moduli di espansione. Le prime partite verranno giocate con i libretti delle regole costantemente aperti, e vi si dovrà fare riferimento spesso anche in quelle successive sempre a causa della loro mole e soprattutto della presenza di tante regolette ed eccezioni.

Differenze tra solitario e competitivo
High Frontier ha diversi piani di interazione. Con più giocatori le carte brevetto vanno all’asta, si possono stringere accordi con relativi pagamenti per l’uso di poteri o strutture, infine è possibile in alcune circostanze compiere atti criminali per fare varie cose che il regolamento non permetterebbe altrimenti. In alcuni casi, l’interazione può diventare pesante anche se raramente è diretta (a meno dell’uso del Modulo 3). Sicuramente il gioco solitario permette una pianificazione meno soggetta a imprevisti e restituisce comunque una sensazione di pieno appagamento. In altre parole, non si percepisce di avere un gioco monco come in molte varianti solitarie di altri giochi anche dello stesso autore.

Ma alla fine non sarebbe meglio fare un videogioco?
Rispetto ai videogiochi, i giochi da tavolo soffrono dell’enorme difetto di aver a che fare con intelligenze limitate (spiace per la vostra autostima, ma mi riferisco precisamente ai giocatori). Questo paradossalmente diventa l’origne del loro più grande pregio, perché da ciò deriva la necessità per gli autori di inventare sistemi semplici ed eleganti con una resa il più efficace possibile. Avere il gioco interamente tra le mani senza subappaltare parti di esso a microprocessori lo rende maggiormente assimilabile nell’interezza dei suoi meccanismi, senza per forza perdere in difficoltà del gioco stesso. Questo è ciò che permette a Eklund di creare un’esperienza totalizzante, a un livello sicuramente diverso rispetto a un videogioco, ma sicuramente superiore come soddisfazione “intellettuale”. Peraltro, faccio anche presente che il sistema su cui si basa High Frontier è estremamente elegante: semplificare il dispiegarsi di una campagna di esplorazione spaziale attraverso la gestione di nient’altro che alcuni stack tra cui spostare le carte è geniale. Nel complesso, chi scrive è convinto che il gioco da tavolo abbia capacità di far sentire i giocatori interamente protagonisti delle loro avventure in maniera di gran lunga superiore rispetto a un videogioco, dietro al quale si nasconde la mano di un programmatore che non si sa mai quanto è realmente presente.
High Frontier 4 All è un’epopea prima che un gioco. Se all’inizio del gioco si annasperà anche solo per prendere una carta brevetto, mentre magari i pezzi di razzo già lanciati in atmosfera esploderanno per inusitate botte della sorte, finirete con un impero di fabbriche e colonie sparso tra innumerevoli satelliti e asteroidi. O almeno si spera. Il numero di regole e regolette è un grosso ostacolo nella rampa di apprendimento, ma è necessario e funzionale alla costruzione di un’esperienza realistica.
In questo High Frontier 4 All Eklund crea un’opera monumentale che riesce alla perfezione nell’obiettivo di simulare la conquista del sistema solare. Riuscire a ridurre la complessità che una simile impresa avrebbe nella realtà a un sistema di regole gestibile in un gioco da tavolo, senza cedere un millimetro più del necessario all’astrazione, è un risultato straordinario.