Bravo bravo bravo ?
Canto III
Mi ritrovai poi in un triste
loco, assai tetro, ove gioia
e luce giammai si son viste.
Vidi un tale morir di noia,
gonfio, raggrinzito e unto
come cappero in salamoia.
Ei, sebben con disappunto,
pur tuttavia al fin mi disse
come giunse a un tal punto -
un mondo poscia apocalisse.
“Perigliosa assai la lussuria:
toglie luce come un’eclisse.”
Era acquosa come anguria
quella voce, debole afflusso,
eco flebile tra muri d’incuria.
“Ego solevo cercare lusso”
disse poi, roso dall’arsura,
“de’ materiali subivo influsso.”
Volli allora aiutar tal figura:
gli porsi dunque la bottiglia
ma ahimé, era una miniatura.
Dunque volea gozzoviglia,
e or langue come un robot.
Ruggine, sguardo da triglia:
'sì senz'anima pare un bot.
Così ahimé riduce l' abuso
di giochi Cool-mini-or-not.
Vagai a lungo, ‘sì confuso
che mi persi; il cor inoltre
mi dolea pel povero illuso.
Allor scesi ancor più oltre
e giunsi fin ove bramosia
trapela dalla spessa coltre
di scatole, gravosa idolatria
che giammai lascia speme
a quei che pecca di bulimia.
Ne vidi uno in tal insieme,
gli arti laceri, la pelle nuda,
Gloomhaven che ivi preme.
A me parve pena ‘sì cruda
che ne chiesi a lui cagione;
ei disse che un barracuda
prese il posto della ragione:
veloce come un ghepardo
si trovò piena la magione.
“Or capisco, fu un azzardo:
eccomi a far, detto prosaico,
la fin della gatta col lardo.”
Volette ogni gioco arcaico,
e le espansion, e le promo.
Ora geme il povero Traico,
sommerso, ormai domo,
da giochi sol defustellati
che pesan come cromo.
Lasciai allor i dolorosi iati
giungenti da tal coperchio,
e scesi pe l’infernali strati.
Lasciai loco tan’ soverchio
e raggiunsi i pietosi avari
nel loro lugubre cerchio.
Canto IV
Appena entrai in tal loco
repente ebbi ne’ l’occhi
l’imago d’un freddo foco -
danaro invece di ciocchi -
ove cocevan il modesto
desinar codesti pidocchi.
Ilare è il fato manifesto:
chi in vita fu alla mercé
de lo dio soldo, or mesto
siede affranto, altroché;
e brucia le due monete
salvate con amazon.de.
Una dell’anime inquiete
poscia mi venne appresso
come s’io fossi magnete;
il suo volto mi è impresso:
a punta il naso e ‘l mento,
faccia scura come cipresso.
In preda a gran tormento
costui chiese se di Noria
avessi l’italico regolamento.
Pur gli evitai giaculatoria
e lasciai quello a tal sorte,
certo amara come cicoria.
Oltre vidi però la coorte
di color che, d’altro canto,
a costoro die’ manforte.
Or certo han rimpianto
d’aver eluso leggi e galatei:
mancan al corpo infranto
pezzi; ma a lor, poveri rei,
volta ab aeterno le spalle
il servizio clienti di Uplay.
Scesi allor l’angusta valle,
lì ove lo Stige furibondo
ai dannati gelava le palle.
Stava lì ormai verecondo
chi in vita fu aggressivo,
rabbioso - fin iracondco.
Vidi colà, presso il rivo,
lo nero spezzino, cheto.
“Chi la regola del balivo
errava, lo volli sott’aceto”
disse, sistemando il ciuffo.
Or all’ombra del canneto
nemmeno emette sbuffo:
raggelati li spiriti bollenti,
ritirato, blu, parea un puffo.
Vidi allor muoversi genti,
sotto le acque, disperate -
nel fango, ahimé, ‘sì lenti -
inseguite da enormi orate.
“Son costoro li accidiosi”
disse il nero a mo' di vate.
“I regolamenti ‘sì barbosi
ritenean: per lor fu routine
rifarsi a quei volenterosi.
Or lor fuga non vede fin:
son esausti e senza aiuti
da Oliva, né da Bianchin.