Sei un folle! Meraviglioso, ma folle
Canto I
Peregrino trovai tra reti sociali
tal gruppo che lo nero spezzino
disse colmo di giocator casuali,
ossia color che di capir di fino
la struttura che ‘l gioco regge
non putan esser uopo; e vicino
a person che tra lor sono gregge
non anelano a conoscentia nova.
Esiste, o gioia, qualcun che legge
e che nozione ulteriore pur trova;
ma se a diffonder tra tali compari
la nova et valida sapientia ei prova
derision, astio et pensieri amari
a ei il gruppo reca; e sì esterna
minaccia non tange equilibri cari
e dunque lo gruppo langue, sverna,
felice di seguitar a petĕre indolente
se Agricola sia meglio di Caverna.
Ormai tal convinzione mia mente
ha colmato; nondimeno speranza
– converrete meco – è presente
ché, pur tra li soliti mal di panza
e le person che solo vole giochi
a riempir la mensola e la stanza,
con passione l’opera di pochi
terreno fertile sembra rivoltar:
come sussurro tra soni rochi,
alfin recar possa seco all’altar
di sana divulgatione al giuoco,
- isola felice in fortunoso mar,
passion che arda come ‘l foco
- più d’un de’ casual giuocatori
che popolano ignavi tale loco.
Certo tutti noi siam peccatori
e come appresi tal definitione
non deve recar affatto timori.
Ma che casual non sia cagione
di mali pensieri: ei è giuocator
che con animo lieto si dispone
a provar quei titoli che il lator,
anela a provar co’ li amici suoi.
Di malintesi dunque basta: è or
che al carro si mettan li buoi
e che sia libero di pregiuditio
il pensieri di lor e di tutti noi.
E però la rete crea la conditio
per cui uomo che par cheto
esploda come batteria al litio.
Ne entrai che ero ben faceto
ma a lo mutar volsi attentione
de li umori che, come aceto,
ogni dì alimentan tensione,
lite dove ier era bisboccia;
egoismo, non più emozione.
Onde per cui gente si scoccia;
e la brezza diventa fortunale
se rabbia gonfia ogni goccia.
E per uscirne non v’è canale:
ahimé, quel che fu sì tan lieto
giace ora alla bocca infernale.
Canto II
Allor dunque entrai per vero
in tal cupo antro le cui pareti
alte e cupe, di grigio e di nero,
turbavan fin l’animi più lieti.
Feci due passi, in man il lume
ché nel buio con gli irrequieti
occhi non si scorgea barlume.
Ecco rapida verso me venne
di gente una folla: un fiume.
Mi scostai, sì rimasi indenne:
allor volli petere: “Donde ite?”
e risposta domanda ottenne
nel fruscio di anime cucite,
che giravan con poca gloria
in tondo, come enorme vite.
“Nostro destino, senza storia,
è ahimé girare: e pur ogni giro
sostar al parco della Vittoria.”
Come di brezza fresco sospiro
che nell’afa solleva lo stendardo,
allor del fato compresi il tiro:
Con lor destino fu beffardo,
giacché dietro, lor malgrado,
vidi rotolar, agile come pardo,
enorme minaccioso un dado -
e poi un altro ancor. “Suvvia!”
Urlai loro. “Venite ove vado.”
E lor, desolati, “Giammai sia.
Siamo qui, a scappar in tondo
Senza poter passar dal via.”
Passai oltre, andai più a fondo
e colsi allor sommesso boato:
soldati, stanchi come il mondo,
combatter demoni da ogni lato
impietrito scorsi a me davanti.
Mi domandai su loro qual reato
gravasse; ché demoni, sì tanti,
giammai vidi come in tal foro.
Poscia battaglia, a un de li fanti
domandai chi fosser costoro;
Ei stupito chiese: “Chi è lei?”;
ma rispose, mentre avea ristoro.
“Demoni che ben saria trofei;
e invece aumentan ogni volta
e attaccan solo con sei sei sei.”
Lasciai gente sì tan sconvolta
di quel territorio alla difesa,
per l’eternità ahimé travolta.
Volsi il passo, ché tal distesa
enorme appariva, e a uscita
menar gambe parea impresa.
Sul terreno gente compita
a resister con colte parole,
l’anima da coleotteri rapita.
Vidi pur uomo di gran mole,
i baffi folti, il cranio glabro,
la testa che sì tan gli duole
ché ogni ora destin scabro,
nella cucina de lo dimonio,
la percuote col candelabro.