Una suite da tavolo

Signor_Darcy

Lasciate che un - sempre più - vecchio nostalgico vi racconti perché i giochi da tavolo e la buona musica hanno tanti aspetti in comune.

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Lo avrete notato, durante le giornate di quarantena in molti si sono lanciati sui social network nelle – spesso apprezzate, per quanto mi riguarda – liste di album, film, libri o quel-che-l'è preferiti; io stesso ho detto la mia – e anzi, nel momento in cui scrivo ne ho alcune ancora in mente – infrangendo però un po' le regole: niente dieci titoli, niente un-post-al-giorno, niente nessuna-spiegazione (se non so di che film mi stai parlando, come faccio a sapere perché dovrei vederlo?). Venti titoli, tutti insieme, commentati. Così, giusto per rompere le palle.

Parallelamente, prima nei podcast di Radio Goblin e poi nei bellissimi articoli di Infinitejest e di Korn73 – dallo scritto di quest'ultimo prendo peraltro la forma di quanto state leggendo – in Tana si è intrapreso un affascinante parallelismo tra i giochi da tavolo e altri media: libri, film, fumetti.

TL:DR

Ho dunque pensato di unire le due cose, prendendo una delle mie selezioni personali – non è una classifica – pari pari come l'ho proposta su Facebook e provando ad abbinare a ciascuno dei venti titoli un gioco da tavolo, cercando per quanto possibile di restare nel novero di quelli che ho effettivamente provato.

La scelta, per motivi di conoscenze personali, è caduta sulla musica – e in particolare sulle suite, componimenti che nella musica contemporanea indicano brani generalmente lunghi (le suite del progressive coprivano spesso un intero lato di un vinile da trentatré giri: indicativamente tra i venti e i ventidue minuti); molto eterogenei a livello strumentale, stilistico ed espressivo, generalmente formate da più movimenti. (La derivazione è ovviamente classica, dalle suite del periodo barocco passando per l'evoluzione ottocentesca che – mentre emergevano altre forme musicali, prima tra tutte la sinfonia – le ha viste tra le altre cose diventare una sorta di riassunto di un'opera più vasta: celebri per esempio quelle dei balletti di Čajkovskij.)

A volte l'abbinamento coi giochi è venuto dal testo; altre dall'atmosfera e dalle emozioni suscitante dalla musica e dall'interpretazione; altre ancora è banalmente suggerita da una meta-considerazione che trascende il componimento in sé – qualunque cosa voglia dire. Detto questo, io i collegamenti ipertestuali ve li metto e consiglio caldamente l'ascolto; poi fate voi.

Ho pensato di affrontarle in ordine di uscita. Ne è uscita fuori questa roba, di cui perdonerete la lunghezza e, soprattutto, la pesantezza.

Serviva? No.

Ma ho voluto scriverlo lo stesso.

Valentyne Suite, Colosseum (1969)

Opera fondamentale per l'evoluzione del progressive, il secondo album del gruppo del talentuoso tastierista Dave Greenslade presenta molti dei tratti caratteristici della concezione musicale del prog stesso, che peraltro è di non facile descrizione – un po' come le categorie dei giochi da tavolo, peraltro.

La suite che occupa l'intero lato B è una lunga cavalcata strumentale in cui il jazz degli esordi risulta decisamente imbrigliato in una struttura che all'improvvisazione lascia ben poco. Il carattere seminale di Valentyne Suite – e l'assenza di testo a cui aggrapparsi, a dirla tutta – mi hanno fatto propendere per il buon vecchio I coloni di Catan (ora solo Catan) di Klaus Teuber, gioco che è vero che può nauseare dopo tante partite nel corso degli anni; ma regge tuttora la prova del tempo.

 

A Plague of Lighthouse Keepers, Van Der Graaf Generator (1971)

Non l'ho ancora visto; ma sono abbastanza sicuro che il recente The Lighthouse abbia atmosfere paragonabili al lungo, oscuro meraviglioso brano a proposito del quale qualcuno, da qualche parte sull'internet, ha detto qualcosa tipo "forse non è la suite migliore del progressive, ma di sicuro è la più emozionante". Penso che abbia ragione.

Pawn Hearts, il capolavoro dei fenomenali Van Der Graaf Generator di Peter Hammill – uno che, mi si perdoni il paragone, sta al progressive come Vlaada Chvátil sta al gioco da tavolo – è uno di quelli che hanno fatto la storia dell'intero genere; il lato B è appunto questo terrorizzante affresco sul custode di un faro che, lentamente, impazzisce per la solitudine e per il senso di colpa di tutte le tragedie in mare di cui è stato testimone o – chissà? – in qualche modo ignaro colpevole.

Non ho provato titoli di questo tipo; ma il gioco che potrebbe venire in mente è uno di quei titoli che danno il loro meglio in solitario; uno di quelli in cui devi affrontare ogni sorta di difficoltà, cercando di preservare la tua sanità mentale; qualcosa che assomigli a This war of mine.

 

Echoes, Pink Floyd (1971)

Con l'uscita di Meddle i Pink Floyd si allontanano dalla psichedelia dei primi lavori e mutano in qualcosa che presto diverrà la macchina quasi perfetta – ma fragilissima e sostanzialmente personale – di Roger Waters e dei suoi testi sulla condizione umana, sull'alienazione, sulla sofferenza. Tutta felicità, insomma.

Il capolavoro del disco – che, per chi non lo sapesse, contiene anche quel gioiello di One of these days che da noi è la sigla di Dribbling – è una suite etera, dai tempi dilatati e dai testi immaginifici sull'importanza di godere della natura e del contatto umano contrapposto al bieco egoismo arrivista di tante, troppe persone. Già allora, sì.

In fondo perché non pensarlo a come uno di quei bei party game che possono a seconda dei casi aiutare a rompere il ghiaccio, socializzare o conoscersi meglio proprio sfruttano le immagini, così come Echoes fa partendo dai maestosi albatross che planano sull'oceano? Qualcosa come Dream on!, insomma.

 

The Musical Box, Genesis (1971)

Gli anni in cui l'anima dei Genesis era Peter Gabriel hanno regalato alcune tra le cose migliori che la musica abbia mai avuto da offrire; ne è un clamoroso esempio il primo dei grandi album del gruppo inglese, Nursery Cryme, che apre con questa favola nera di stampo vittoriano – come da copertina – che parla di morte e di desiderio carnale.

La storia macabra della piccola Cynthia che decapita Henry con una mazza da croquet e poi apre il carillon – la filastrocca di Old King Cole, musicalmente da pelle d'oca – e riceve la visita dello spirito invecchiato del ragazzo, il quale vuole soddisfare i suoi desideri inespressi di bambino mai cresciuto ma viene distrutto dall'intervento della bambinaia, per diversi elementi – a cominciare dall'epoca di riferimento – può ricordare Lettere da Whitechapel.

La vicenda di Jack lo squartatore, per la verità, è nota anche per non avere un finale; a differenza di questo brano leggendario, che ne ha uno che ogni volta che l'ascolto rimango inebetito.

 

Thick as a brick, Jethro Tull (1972)

La scelta del brano nella lista è stata facile, essendo questo capolavoro dello storico gruppo inglese il mio album preferito in assoluto.

Thick as a Brick (letteralmente ottuso come un mattone) è un'unica traccia, divisa in due per meri motivi di supporto audio; nella selezione di facebook ho indicato la prima facciata, ma tutti e quarantaquattro i minuti valgono quantomeno l'ascolto.

(Mi permetto di suggerire a chi fosse interessato una mia passata recensione scritta per un forum di ottimo livello, ancorché frequentato da quattro gatti contati.)

In un lungo, avvolgente manto ricamato dal suo flauto, l'istrionico Ian Anderson racconta la storia inventata di Gerald Bostock, bambino prodigio autore di una poesia vincitrice di un concorso, che viene in seguito estromesso per via di una parolaccia.

La doppia provocazione del disco – la critica feroce verso la cultura benpensante di allora, che poi in un'epoca in cui si eliminano episodi di Scrubs perché contengono delle facce colorate di nero (peraltro già stigmatizzate sul nascere), è anche quella di oggi; ma anche la parodia del prog stesso grazie a un album che ne assume i connotati quasi a dileggio, anche se poi il risultato è sensazionale – mi fa propendere per un bel gioco di bluff, meccanica che personalmente adoro.

Visto poi che si parla di Inghilterra, cosa c'è di meglio dell'abito da ciclo bretone astutamente indossato dal capolavoro The Resistance: Avalon?

 

Il giardino del mago, Banco del mutuo soccorso (1972)

Come ben sa chi allora c'era o chi il prog lo ascolta, nei primi anni settanta la scena italiana è stata forse la più fervida e apprezzata dopo quella inglese. Anche grazie al Banco del mutuo soccorso che, trascinato dalla magica voce di Francesco Di Giacomo, esordisce con l'album omonimo; il quale nel secondo lato contiene una bellissima suite che alterna momenti di placida calma a furiose sfuriate tastieristiche.

Stavolta mi sono fatto guidare dal testo, favorito ovviamente dalla lingua e dalle immagini piuttosto tristi e malinconiche che vi compaiono: il cavallo con la testa in giù, gli zoccoli di legno che volavano sui fiori; la gente che canta al funerale; un quadro che balla sotto un chiodo nell'aria; persone che ridono, che gemono, che cavalcano farfalle, che comandano le stelle; foglie di vetro, alberi e gnomi; leggeri cigni che danzano.

Non credo di essere l'unico a cui sia venuto in mente quel gran capolavoro di Dixit.

 

Close to the Edge, Yes (1972)

Tecnicamente mostruosi, gli Yes sono tra gli emblemi dell'intero progressive, anche perché nella loro produzione riassumono molti dei pregi e – al tempo stesso – dei difetti del dirompente, effimero movimento che, non a caso, portò la musica a sfociare nella rivoluzione punk.

Tra i loro capolavori è spesso citato Close to the Edge, che apre coll'eccezionale suite omonima, in cui l'atmosferica bucolica dei primi minuti evolve in maniera soprendentemente naturale nel classico yes sound, con ogni strumento che sostanzialmente se ne va per i cazzi suoi mentre l'insieme incredibilmente regge.

Tra gli strumenti di cui sopra c'è anche la voce angelica, limpida ma mai flebile, di Jon Anderson, sorta di fricchettone appassionato di guru, meditazione e quelle cose lì che lo portano a scrivere testi in cui magari si capisce poco, ma che certo interpreta benissimo; ma appassionato anche di storia delle istituzioni religiose – e infatti il brano parla dell'uomo, come da titolo sull'orlo del baratro, e del suo risveglio spirituale ispirato al Siddartha di Hermann Hesse.

Il testo non lesina in attacchi alle religioni organizzate e alle tante sofferenze che ha inflitto nel corso della storia; quindi perché non buttare nella mischia qualcosa tipo Here I Stand, titolo della Gmt sui conflitti religiosi del quindicesimo secolo?

 

Supper's Ready, Genesis (1972)

Di nuovo il gruppo che, anni dopo, il volpone Phil Collins trasformerà in una macchina da soldi, questa volta con la suite che chiude l'ottimo Foxtrot. Estremamente eterogenea, nata infatti dall'unione di pezzi più brevi, Supper's ready è un cazzo-di-capolavoro – definizione tecnica – che in una ventina minuti parte dalla cucina di casa, passa per l'apocalisse e termina con le armate del bene che avanzano verso la nuova Gerusalemme in un finale di insostenibile intensità. Una roba pazzesca. Pazzesca.

Nel testo, complicatissimo, si fa riferimento a una guida spiritituale e a un narciso (che ai nostri fini possiamo pure ipotizzare siano la stessa persona, magari coi capelli lunghi, che si troverà a essere l'ago della bilancia della vicenda); c'è la lotta tra bene e male, mai veramente chiara; c'è lo scontro tra due culti agli antipodi; si parla di resurrezione e di trasfigurazione; si citano le sette trombe dell'apocalisse (chissà, magari una musica che risuona nella testa); si accenna a una leggenda con ben pochi pochi superstiti: sarebbe quella del pifferaio di Hamelin, ma potrebbe essere benissimo l'olocausto delle Dodici Colonie. Ancora: la stessa nuova Gerusalemme non può forse essere la nuova Terra?

Insomma, se non fosse che la suite dei Genesis ha un finale perfetto, a differenza di una certa serie da cui peraltro è stato tratto un capolavoro di gioco da tavolo, potrebbe quasi sembrare che si stia parlando di Battlestar Galactica.

 

Karn Evil 9, Emerson, Lake & Palmer (1973)

Amati-odiati come pochi, i tre talentuosissimi musicisti, anche più degli Yes portano all'estremo gli eccessi del progressive, in positivo ma anche in negativo; e però la storia del progressive passa anche per lo strabordante Brain Salad Surgery e, metonimicamente, per l'incredibile Karn Evil 9, talmente lunga che han dovuto spezzarla.

Si tratta di una sorta di Black Mirror ante litteram, con le macchine create dall'uomo che finiscono inevitabilmente per prendere il sopravvento sui loro creatori – non il più originale dei temi; ma modulato dalla voce di Lake e dai sintetizzatori di Emerson non s'era mai sentito.

Se si dovesse davvero arrivare a concepire i computer come essere senzienti, forse sarebbe davvero il caso di parlare di Specie dominanti. Anche perché il respiro, la durata e la complessità del gioco di Chad Jensen sono relativamente paragonabili a quelli del capolavoro musicale di cui sopra, peraltro racchiuso in una copertina tanto famosa quanto scandalosa nella sua stampa originaria (quello che fuoriesce da sotto non era certo un Wudy Aia), opera dello svizzero Giger, che di lì a pochi anni si sarebbe fatto conoscere grazie ad Alien.

Ma questa è un'altra storia, come si suol dire.

 

Lady Fantasy, Camel (1974)

Pezzo conclusivo dello strepitoso Mirage, l'album più noto e celebrato dei Camel – gruppo forse poco noto, ma assai coerente nella sua evoluzione – noto anche per la copertina che voleva essere parodistica ed è finita davvero per ottenere una sponsorizzazione (poi terminata per volere della band stessa), Lady Fantasy è una dichiarazione d'amore. Per una donna mai abbracciata, certo; ma anche per la musica, con quell'attacco al fulmicotone e i meravigliosi fraseggi di tastiere e chitarra.

"Ti ho visto calvacare una nuvola lunare; ti ho visto camminare su un vortice [...] Ti ho visto sedere su un raggio di sole nel bel mezzo del mio sogno a occhi aperti": una dichiarazione d'amore per qualcosa dalla bellezza assurda, quasi irreale ("Posso vedere chiaramente il tuo volto nel cielo, la luna è nei tuoi occhi").

Una scala protesa verso il viso che illumina la notte.

Come in Catch the Moon.

 

The Gates of Delirium, Yes (1974)

A detta di chi scrive, il brano più bello degli Yes, anche loro al secondo titolo in questa rassegna: mi sono infatti concesso tre ripetizioni.

In qualche modo ispirato al magnifico Guerra e pace di Tolstoj, The Gates of Delirium (lato A di Relayer, di cui mi limito a far notare la pazzesca copertina di Roger Dean) ha due evidenti cuori tematici: un'infernale sezione rumorosa, nel vero senso della parola, in cui Anderson e il batterista Alan White suonano letteralmente qualsiasi cosa, inclusi dei rottami mettalici; e un finale trasognante, dolcissimo, pieno di speranza (Soon, uscito peraltro anche come singolo), retto dalla commovente lap steel guitar di Steve Howe: la meravigliosa quiete dopo la tempesta.

Guerra e pace, appunto.

Molti sono i giochi, wargame e non, incentrati sulla guerra – gli eserciti schierati, un giocatore contro l'altro. Ma il respiro epico e, forse suggerita dalla copertina, l'spirazione fantasy mi parlano del capolavoro La guerra dell'anello. Del resto l'oppressore possono essere gli eserciti delle due torri; le ombre giganti della forza invadente possono essere quella delle armi d'assedio orchesche o, magari, quelle dei liofanti; l'invocazione prima della battaglia può essere quella di re Theoden; la notte infinita è quella che arriva da est.

Ma c'e speranza e presto – Soon – arriverà la pace: il tempo degli umani, il tempo del re di Gondor. La Quarta Era: un ponte verso un futuro che si spera di pace. Come del resto credevamo dopo la seconda guerra mondiale e anche dopo la guerra fredda.

 

Song of Scheherazade, Renaissance (1975)

Gruppo che incarna il lato più sinfonico del progressive, per quanto corroborato da una ritmica solidissima, la seconda vita dei Renaissance ha regalato perle di enorme valore; e buona parte del merito è da attribuirsi alla straordinaria voce di Annie Hanslam, in grado di inerpicarsi ad altezze impensabili.

La lunga suite che chiude il bellissimo Scheherazade and Other Stories è un mosaico in cui l'orchestra incornicia le melodie ora sognanti, ora impetuose della band inglese e le accompagna verso il finale, intensissimo, in cui viene ripetuto più e più volte il nome della leggendaria regina persiana – le voci maschili a fare da contraltare, la musica sempre più insostenibile.

Non ci ho mai giocato; ma è inutile cercare giochi che non siano Tales of the Arabian Nights: la sua chiara ispirazione da Le mille e una notte e il suo sapersi sempre rinnovare, un racconto dopo l'altro, fanno del titolo narrativo della Z-Man — mi si perdoni la banalità – esattamente quello che ci vuole in un articolo del genere.

 

Baker Street Muse, Jethro Tull (1975)

Suite nel senso più classico del termine, essendo divisa in frammenti nettamente staccati tra loro, Baker Street Muse, dall'ottimo Minstrel in the Gallery, è uno dei brani in cui più si avverte — e anzi viene clamorosamente messo in mostra — come i Jethro Tull in realtà siano sempre più Ian Anderson (uno one-band-man, come ironizza lui stesso nel testo); nonché come Ian Anderson sia in guerra contro tutto e tutti.

Musicalmente meraviglioso, il brano — quasi impressionista: basta considerare il primo verso: "Fermata d'autobus ventosa. Click. La vetrina di un negozio. Tacchi." – offre nei suoi vari segmenti un aberrante e vivissimo ritratto urbano tra pozze di vomito, prostitute straniere, mendicanti scacciati dalla polizia, esseri ripugnanti, gente immersa nei suoi pensieri che passa oltre senza badare a niente; e giù, nella metropolitana – par quasi di sentirla – puzza di piscio.

Non è una suite facile da abbinare a un gioco. L'atmosfera urbana, degradata, fa pensare al risvolto negativo dell'industrializzazione, e pazienza ai due secoli buoni di scollamento; e la birra – "Birra vomitata. Pozzanghere che fermentano. Ragazzi, pulite tutto!" – mi dice nello specifico Brass: Birmingham.

Non volendo entrare nel merito del pigmeo che scala la montagna, ché magari mi leggono anche i bambini, direi che va bene così.

 

Ommadawn, Mike Oldfield (1975)

Non ne esco: sono settimane che ascolto a ripetizione questa meraviglia, anche questo un brano unico diviso in due parti – stavolta se devo scegliere propendo per la seconda – che in un certo senso riprende le atmosfere idilliache del precedente Hergest Ridge, in cui la pace interiore tanto cercata nel tormento della vita veniva raggiunta nella campagna inglese, che il geniale musicista elesse a propria dimora. Non è casuale la presenza a fine album di una breve canzone – la prima non strumentale della discografia di Oldfield – sui piaceri di una cavalcata contrapposta, tra le altre cose, al caos della città.

Musicalmente Ommadawn offre quaranta minuti sensazionali, con continue variazioni dei temi esposti, senza soluzioni di continuità e una chitarra che fa venire i brividi da quanto è espressiva.

Quasi assenti i testi, se si esclude un breve inciso di fonetica gallese che dice qualcosa tipo "Il gatto beve latte in cucina; io rido perché sono pazzo".

Orbene: l'idillio dei campi, sia pure a fronte del lavoro duro nelle fattorie (la pazzia può anche essere figurata, come quando mia nonna torna dall'orto ciuca di fatica); la gioia della vita all'aria aperta; un animale in casa, altra bocca da sfamare. Agricola fatto e finito.

 

2112, Rush (1976)

I canadesi Rush, che da poco hanno subito la perdita del fenomenale batterista Neil Peart, sono tra i gruppi migliori che vi possa capitare di ascoltare, senza mezzi giri di parole: sono – erano, ahimé – in tre e sembrano diciotto.

Uno dei loro lavori migliori è 2112, album che fa della suite omonima il suo centro nevralgico; musicalmente da qualche parte tra l'hard rock e il progressive, con sezioni durissime intervallate da momenti di intensa placidità, la suite narra di una Terra retta da un ordine religioso repressivo che ha vietato le arti e, quindi anche la musica; e anche di un ragazzo che dietro una cascata trova una chitarra, impara a suonarla, la mostra ai sacerdoti ma questi gliela distruggono. Il ragazzo distrutto nel morale, torna nelle grotte e lì un vecchio oracolo gli racconta della razza degli uomini che costruì la chitarra e che fu costretta a partire dalla Terra in attesa di un futuro migliore. Il ragazzo capisce che non può più vivere così e insomma: gran finale con il consolidamento del potere della Federazione Solare.

Dunque: un potere esteso a più pianeti – non propriamente galattico, ma facciamo finta che lo sia – manovrato da un antico ordine; e, dall'altra parte un esiliato ormai in preda allo sconforto che, per bocca di un oracolo (che possiamo immaginare piccolo e verde), scopre molte cose del passato. Le analogie finiscono qua; ma la straordinaria portata epica del brano e i dialoghi stridenti tra il ragazzo in acustico e i preti in elettrico non possono che suggerire quel gran pezzo di gioco che è Star Wars: Rebellion.

Voi direte: "Ma la storia di 2112 finisce di merda!" Perché, la saga di Star Wars no?

 

The Turn of a Friendly Card, The Alan Parsons Project (1980)

Altra suite che è tale nel senso vero del termine, essendo formata da cinque brani uniti da un filo conduttore, col primo e l'ultimo a chiudere però il cerchio. Il filo conduttore, nella fattispecie, è il gioco d'azzardo.

Opera meravigliosa del "gruppo" fondato dall'ex ingegnere del suono dei Pink Floyd con il fido e compianto Eric Wolfsoon, The Turn of a Friendly Card, che chiude l'album omonimo, vive di interpretazioni sofferte, linee melodiche indimenticabili e passaggi strumentali di indubbio fascino. Meraviglioso il quarto movimento (Nothing left to lose: il "gioco" s'è preso tutto: "Ora hai tutto da guadagnare, perché non ti è rimasto più niente"), prima che la ripresa del tema iniziale e poi un bellissimo assolo chiudano l'intera suite.

Posto che l'azzardo e il gioco non c'entrano niente tra di loro, è pur vero che nei giochi da tavolo ci sono meccaniche che prevedono di sfidare la fortuna, il push-your-luck, o che comunque forzano a perseguire i propri scopi confidando di avere sempre una moneta più del necessario. Le aste, per esempio; ma non solo.

Si può però parafrasare il testo della canzone immaginando l'attesa di uno scommettitore – o di uno che prova a campare – per la prossima mano di carte, alzando sempre di più la posta, sperando che la fortuna non volti le spalle. Un po' come un secolo fa fece un immigrato italiano col suo sistema di frodi che conosciamo come Ponzi Scheme.

 

Grendel, Marillion (1983)

Gli alfieri del neo-progressive, inizialmente capitanati dal carismatico Fish, si sono permessi di non includere uno dei loro brani migliori – e ne hanno scritti di eccellenti – in alcuno dei loro album: compare infatti in versioni peraltro differenti solo come lato B di un singolo o come contenuto extra della rimasterizzazione dell'album di debutto, il bellissimo Script for a Jester's Tear: l'ho conosciuto – e adorato – proprio in quest'ultima veste.

Musicalmente Grendel è varia, coinvolgente, pazzesca: emerge tutta la bravura dei musicisti dei Marillion, spesso ingiustamente considerati solo un'imitazione dei Genesis di Gabriel peraltro fuori tempo massimo.

Il brano, che si rifà a un romanzo di John Gardner a sua volta ispirato dal Beowulf, narra – o meglio: si mette nei panni – di un mostro che trangugia uomini senza pentimento ("Per quale motivo dovrei mostrare pietà quando voi uccidete i vostri simili senza vergogna?").

Un ragionamento del genere potrebbe farlo anche una specie di un altro pianeta che vede la sua nidiata infastidita, finanche compromessa da un umano e che quindi, solo per difesa, decide di attarlo con una larva, senza immaginare che i suoi compagni lo avrebbero poi portano nella loro astronave; e insomma, a quel punto che morissero tutti, no?

Alien. Nemesis.

Quando si dice la fantasia.

Duel with the Devil, Transatlantic (2001)

Faccio un salto di quasi vent'anni per superare la patina degli anni ottanta e i garage dei novanta e arrivare a un disco degli albori del nuovo millennio, avuto quasi per caso e che subito mi ha colpito per il suo eccezionale primo brano, una lunghissima, appassionante suite che narra nientepopodimeno che della lotta contro i demoni nella propria testa. (Il resto del disco non è epocale, anche se si fa ascoltare; devono però sapersi digerire i virtuosismi dei musicisti, provenienti da diverse band – tra essi Portnoy del Dream Theater e Trewawas degli stessi Marillion – e confluiti quello che è un vero e proprio supergruppo.)

Stavolta lavoro un po' di fantsia – più del solito, intendo. Anche perché altrimenti non saprei che pesci pigliare: forse la scelta giusta sarebbe qualcosa tipo Michael, ma di questio gioco ne so zero.

Dunque: un titolo incentrato sulla guerra contro un nemico visto come il diavolo in persona, che è una cosa mentale come tutte le ideologie, ma ormai abbiamo capito che l'umanità non guarirà mai; una lunghezza importante, per molti proibitiva; dei momenti di fortissima intensità alternati a fugaci, illusori sprazzi di bel tempo con sullo sfondo sempre lo spettro di un'apocalisse; un finale roboante, quasi un muro che crolla, con le campane a festa. Insomma: se uno vuole arrivare a Twilight Struggle, in qulache modo ci arriva.

 

And Then There Was Silence, Blind Guardian (2001)

I bardi hanno scritto canzoni che hanno fatto la storia del power metal e, con questo lungo, entusiasmante brano, uscito prima come singolo e poi, l'anno successivo, come traccia conclusiva di A night at the Opera, hanno dimostrano ancora una volta, dopo i fasti degli anni novanta, di avere capacità fuori dal comune.

La canzone, estremamente mutevole, tanto da farmela considerare – ché tanto le regole le faccio io –una suite più che un brano lungo, si ispira alla guerra di Troia ed è caratterizzata da un suono pienissimo e dal continuo ricorso alle sovraincisioni, tanto che Hansi Kürsch ci fa sorbire la sua voce pazzesca in tutte le salse.

L'apice emotivo e strumentale – un coro di intensità quasi insostenibile – è poco dopo i due terzi di brano; dopodiché la canzone veleggia verso la fine, o verso Itaca, o dove vuole o dove volete, sfumando nel silenzio del titolo.

Le sovraincisioni, gli strati uno sull'altro, potrebbero far venire in mente certi autori portoghesi o austriaci; ma sarebbe una forzatura. Molto meglio immaginare un'epopea epica, una battaglia dell'antichità come può essere quella tra i romani e i cartaginesi di Hannibal: Rome vs Carthage; o magari, per non andar troppo lontano dall'odierna Turchia, il conflitto tra Sparta e Atene ben raccontato da Peloponnesian War di Mark Herman.

 

A Poem for the Firmament, Elvenking (2004)

L'ultimo brano di questa rassegna interminabile – e dunque ambientatissima, visto il tema – è di nuovo italiano: gli Elvenking, gruppo notissimo della scena metal internazionale e pagana, sono infatti friulani.

A concludere di Wyrd, il loro secondo album, compare questo brano non lunghissimo, ma estremamente eterogeneo, in cui i pensieri, sempre più cupi e oscuri, si susseguono nei vari momenti di una giornata e della notte che lo segue, senza trovar lenimento nemmeno all'avvicinarsi di una nuova alba.

Il brano, bellissimo, alterna furiose cavalcate elettriche e momenti di luminosa soavità come nella bellissima parte del crepuscolo, affidata a una bellissima voce femminile e al lamento degli archi.

Fantasy e ciclicità del tempo; ma anche rune, strani artefatti, frammenti di stelle e luci da seguire. Facciamo che dico Seasons – che peraltro Asmodée finalmente riediterà – e poi vi libero da questo strazio.

 

***

Per la stesura di questo articolo mi sono avvalso saltuariamente del moltissimo materiale in rete sull'argomento (tra cui roba mia che mi ero quasi dimenticato di aver scritto), in particolare per alcune interpretazioni di testi pieni di modi di dire, figure retoriche e doppi sensi di difficile traduzione come quelli dei Jethro Tull, dei Genesis, deii Marilion e degli Yes.

Commenti

Non mi aspettavo i Blind Guardian alla fine della rassegna... Approvo, apprezzo e spero possa essere colonna sonora di Aron Trespass.

Per il resto, variazioni sul pezzo: Roundabout (Yes) a me fa sempre tornare in testa (tra le altre cose) Flamme Rouge; the imperor in his war room (VGG) Dune.

Tutto il resto verrebbe molto più distorto! 

Per i cultori però:

"the river dragon has come"(nevermore)>barrage

Mordred's lullaby > tainted grail

Luna (moonspell) >black rose War

Jerry was a racecar driver (Primus): ogni gioco di corsa ?

 

 

 

In questo genere di parallelismi è sempre molto difficile essere completamente d'accordo con chi scrive, musica, libri, fumetti e ...giochi forniscono un' esperienza singola e personale che difficilmente è simile a quella di qualcun altro, una grossa parte, poi, la fa la mancata conoscenza (approfondita) di uno o di tutti e due i titoli messi a confronto. Tutto questo porta di solito ad un sacco di "io avrei messo questo al posto di quello", generando a volte qualche critica e a volte qualche piacevole ed interessante discussione, quindi un grosso plauso a chi scrive questo genere di articoli, per la ricerca, per le argomentazioni, per il coraggio e per il molto (immagino) tempo dedicato alla preparazione ed alla stesura.

Un'ultima cosa, nel pezzo si parla di un articolo sui parallelismi tra libri e fumetti, me lo sono perso potete indicarmi un link per recuperarlo

Un Signor Darcy sempre più eclettico, complimenti! 

paperoga scrive:
Un'ultima cosa, nel pezzo si parla di un articolo sui parallelismi tra libri e fumetti, me lo sono perso potete indicarmi un link per recuperarlo

Film e fumetti sono stati trattati in un podcast di radio goblin, "seguito" della puntata su videogiochi e film.

Ottime scelte, ben fatto.

Un paio di appunti :

1)Avrei preferito una selezione prettamente progressive (o prog-rock, classic prog, golden era, prog & underground, visto le molteplici definizioni ( il perido '69-'76 insomma, estendibile a '67-'78 se si contano i primi semi e gli ultimi vagiti)), per poi magari fare successivi articoli in futuro deticati a neo-prog, metal e cosi' via.

2)All'interno di esso avrei preso un solo album per band/artista, tanto la qualita' e la quantita' sono talmente alte che c'e' solo l'imbarazzo della scelta !

Sono da sempre lontano come gusti dal prog. Però in mezzo a tante riconosciute pietre miliari mancano In the Court di King Crimson, Storia di un minuto di PFM e Octopus di Gentle Giant, triade che in effetti preferisco qualunque titolo di questo elenco... sarà che sono troppo banale (poco ma sicuro) o che, come sostiene qualche mio amico progster, non fanno "true progressive rock" ?....

Ho passato tipo 5-6 anni della mia vita ad ascoltare SOLO ed ESCLUSIVAMENTE musica rock progressive (italiana e straniera) della decade magica 1967-1976. Ho condotto per anni un programma che parlava solo di quel periodo e di quel particolare genere... conosco praticamente tutti i gruppi e i dischi da te citati e, all'epoca, ne ero un profondo conoscitore. Ad un certo punto però mi venne una nausea tale che rigettai tutto, tutto insieme (un po' come accadde al genere stesso sul finire degli anni '70). Oggi mi capita saltuarimanete di riascoltare qualche disco ogni tanto (i più famosi o i miei preferiti).

Il paragone suite prog - giochi da tavolo lo trovo un po' forzato ma d'altronde questa è una sfera talmente soggettiva e personale che qualsiasi cosa è lecita. In ogni caso, complimenti per l'articolo... è comunque un'analisi molto approfondita di due "mondi" (prog e gdt) che mi stanno molto a cuore! :)

WhiteWinston scrive:

Ho passato tipo 5-6 anni della mia vita ad ascoltare SOLO ed ESCLUSIVAMENTE musica rock progressive (italiana e straniera) della decade magica 1967-1976. Ho condotto per anni un programma che parlava solo di quel periodo e di quel particolare genere... conosco praticamente tutti i gruppi e i dischi da te citati e, all'epoca, ne ero un profondo conoscitore. Ad un certo punto però mi venne una nausea tale che rigettai tutto, tutto insieme (un po' come accadde al genere stesso sul finire degli anni '70). Oggi mi capita saltuarimanete di riascoltare qualche disco ogni tanto (i più famosi o i miei preferiti).

Il paragone suite prog - giochi da tavolo lo trovo un po' forzato ma d'altronde questa è una sfera talmente soggettiva e personale che qualsiasi cosa è lecita. In ogni caso, complimenti per l'articolo... è comunque un'analisi molto approfondita di due "mondi" (prog e gdt) che mi stanno molto a cuore! :)

 

Curiosità, oggi cosa ascolti?

Per me, pur essendo fuori periodo per nascita, tra la musica più bella mai suonata

Articolo pazzesco. Supper's ready e the musical box da grandi intenditori. 

Peppe74 scrive:

 

WhiteWinston scrive:

 

Ho passato tipo 5-6 anni della mia vita ad ascoltare SOLO ed ESCLUSIVAMENTE musica rock progressive (italiana e straniera) della decade magica 1967-1976. Ho condotto per anni un programma che parlava solo di quel periodo e di quel particolare genere... conosco praticamente tutti i gruppi e i dischi da te citati e, all'epoca, ne ero un profondo conoscitore. Ad un certo punto però mi venne una nausea tale che rigettai tutto, tutto insieme (un po' come accadde al genere stesso sul finire degli anni '70). Oggi mi capita saltuarimanete di riascoltare qualche disco ogni tanto (i più famosi o i miei preferiti).

Il paragone suite prog - giochi da tavolo lo trovo un po' forzato ma d'altronde questa è una sfera talmente soggettiva e personale che qualsiasi cosa è lecita. In ogni caso, complimenti per l'articolo... è comunque un'analisi molto approfondita di due "mondi" (prog e gdt) che mi stanno molto a cuore! :)

 

 

 

Curiosità, oggi cosa ascolti?

Per me, pur essendo fuori periodo per nascita, tra la musica più bella mai suonata

Rock nel senso più ampio del termine. Dai classici degli anni '70 fino al metal più estremo (trash, black, death, etc.), dalle contaminazioni elettroniche alla new wave, dal grunge alle svolte più melodiche/pop dell'ultimo decennio. Si fa prima a dire cosa non ascolto e non ho mai ascoltato seriamente del rock: il punk. :)

Splendido articolo ma mi permetto di dissentire su Agricola che non puo' non essere associato al leggendario album Harvest di Neil Young.

Che emozione vedere la copertina di Foxtrot apparire quando ho aperto il sito della Tana oggi ! E che bell articolo...... per me del 1965 con la passione dei giochi da tavolo  e cresciuto con Genesis, Yes, ELP e affini e passato poi all hard rock e al metal, è stato meraviglioso leggerlo. Grazie, grazie grazie......Per quanto riguarda gli abbinamenti, a mio parere sono talmente personali sia i gusti musicali che le preferenze sui giochi che non credo sia giusto nominare gruppi o titoli esclusi o associati in modo differente. 

Articolo MERAVIGLIOSO, complimenti! Mi sono iscritto solo per poterlo scrivere, bellissimo abbinamento...

Poi ognuno ha i suoi preferiti nel cuore, ed è giusto così... A dire il vero IMHO i Pink Floyd col prog c'entrano poco o nulla, ma se un album deve essere nella lista direi più Atom Heart Mother... Echoes a Pompei cmq rimane la mia vetta artistica di ogni epoca..e si, i King Crimson non possono mancare, così come Felona e Solona e l'era del cinghiale bianco... 

.. Non sono un patito ma vi seguo con affetto nelle recensioni e nei commenti... Sto lentamente sottraendo un gruppo di amici di mio nipote dalle grinfie della play... Siamo partiti con lo stufantissimo risiko e i suoi malefici tiri di dado avversi, siamo approdati a Ticket to ride Europa e Carcassonne con grande gioia collettiva.... Abbiamo provato Splendor e piace abbastanza... Suggerimenti per un gioco che giri anche in 6 e non sia un cinghialone ma stia nei 90 minuti? Grazie in anticipo per i suggerimenti, saluti 

HM66 scrive:
[...]

Grazie davvero per i complimenti; in effetti ho trattato di suite; ma se si parla di suite forse è inevitabile che il discorso verta sul prog.

 

Per il gioco non saprei: per [fino a] sei giocatori ci sono titoli bellissimi, ma il vincolo sulla durata ne esclude molti. Mi vengono in mente giochi di carte come il capolavoro Citadels (che per me dà comunque il meglio in cinque, oltreché in due) o, per andare sul sicuro, l'ormai classico 7 Wonders.

 

Splendido articolo ma mi permetto di dissentire su Agricola che non puo' non essere associato al leggendario album Harvest di Neil Young.

o per restare nelle suite rock, Atom Heart Mother dei Pink Floyd, con la sua bella mucca 

Articolo piacevole. Il prog lo associo di più a tea e biscotti, vista l'inglesità barocca dell'insieme. Per dei giochi tedeschi poteva starci un disco degli Amon Duul? o dei cari vecchi Popol Vuh?

Non ne conosco una, mai sentite e neanche tutti i gruppi. Mi devo preoccupare? Domani le cerco su youtube.

Delia scrive:

Non ne conosco una, mai sentite e neanche tutti i gruppi. Mi devo preoccupare? Domani le cerco su youtube.

Lascia perdere... è un genere di nicchia e fuori dal tempo. Per capirlo bisogna arrivarci per gradi e con tanta passione...

WhiteWinston scrive:

Delia scrive:

Non ne conosco una, mai sentite e neanche tutti i gruppi. Mi devo preoccupare? Domani le cerco su youtube.

Lascia perdere... è un genere di nicchia e fuori dal tempo. Per capirlo bisogna arrivarci per gradi e con tanta passione...

No, beh: non è mai troppo tardi. Lasciati ispirare dalle descrizioni; o magari dai giochi elencati: alla fine il fine dell'articolo era quello.

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