Qualche tempo fa - più mesi che settimane - sono stato invitato a partecipare a una sorta di tempesta di cervelli collettiva a Roma per conto della mia azienda. Quale fosse il tema dell'incontro non ha importanza, perlomeno non qua.
Nella sala vi erano - tra gli altri - alcuni miei colleghi attuali, diverse persone che conosco bene (la cui conoscenza reciproca risale a quando, anni fa, lavoravo anch'io nella città eterna) e pure alcune altre con le quali avevo avuto a che fare in passato solo per scambi di posta elettronica e che, in quella sala, vedevo per la prima volta di persona.
Fin qui - lo so - nulla di particolare.
Le cose che si scoprono in un aereo
Come sa bene chi ha partecipato a qualcosa di simile, l'impiegato medio non è proprio a suo agio quando si tratta di mettersi in gioco; ben consci di questo, i due ragazzi chiamati a presiedere alla seduta - chiamiamola così - hanno pensato bene di rompere il ghiaccio con un giochino conoscitivo, chiedendo a tutti i presenti di scrivere su un foglio A4 di una propria passione, di trasformare quel foglio in un aeroplano e di lanciare [sic] dapprima il proprio e poi tutti gli aerei che sarebbero capitati sottomano nei minuti successivi.
E niente: com'è facile prevedere, quei minuti di delirio sono iniziati nel timore generale e terminati in battaglia di Eylau - tipo la battuta di caccia de
Il secondo tragico Fantozzi, per intenderci.
Si sono visti volare - o quantomeno provarci - catafalchi di carta squadrati e sgraziati come un cargo Il'jušin, aerei tradizionali con la punta a triangolo e le ali a forma di assorbente economico e superjet a reazione con pungiglioni affusolati e potenzialmente in grado di accecare un quadro-16 e di infliggere seri danni perfino a un dirigente.
Terminato il tutto, ognuno di noi doveva afferrare uno degli aerei, aprirlo e - a turno - provare a capire chi avesse quel certo interesse - cucina, pallavolo, cucina, Atalanta, cucina - ivi riportato. Nel mio aereo - quello figo che ho progettato, non il catorcio che mi sono ritrovato - sono stato dubbioso su cosa scriverci: avrei voluto indicare lo sci (visto e praticato, sport di clamorosa beltà); poi però - perché no? - ho pensato ai giochi da tavolo.
Il mio aereo è stato tra gli ultimi a essere aperto, non ricordo da chi - ma non importa -; è qui che entra in gioco D., uno di quei colleghi mai incontrati di persona di cui prima. Dopo che la persona ignota, al secondo o terzo tentativo, capisce chi è il bambinone, nel momento di silenzio che segue sento D. berciare; lo guardo e vedo il suo volto illuminarsi. "Ti piacciono i giochi da tavolo?", mi chiede; "Sì", rispondo; "Ne parliamo durante la pausa", chiosa lui e io convengo, ché a tutti gli altri - immagino - gliene frega ben poco.
Le cose che si scoprono in un caffè
Arriva la pausa. Non ricordo chi riprende il discorso - forse lui, ma non è importante. Parliamo di titoli giocati e comprati e, in pochi secondi, il mio entusiasmo per aver trovato un collega col quale, chissà, fare qualche partita nelle solitarie serate di trasferta a Roma (ché non di sole serie tv vive l'uomo), si tramuta in una sensazione strana.
Provo a spiegarla in poche parole. Scopro che D. è, nel bene e nel male, l'
appassionato di oggi: paradigma di quello che - pur da esperto, non certo un novizio - popola il gruppo di
facebook, che segue i
kickstarter, che aspetta
Lords of Hellas e non che
Glen more torni disponibile; quello che, insomma, ha provato - sul
giocato ho i miei dubbi, ma forse sono io che sono prevenuto - diverse delle ultime, colossali uscite del settore - quelle tutta opulenza e miniature.
Speravo, in altre parole, di parlare con D. dei grandi classici - non necessariamente perché siano giochi migliori delle utime uscite (pur essendolo), ma perché in teoria dovrebbero costituire una base comune, il minimo comun denominatore per far dialogare tra loro gli appassionati del gioco da tavolo.
Scopro invece che, a quanto pare, non è così - non più, almeno. In buona sostanza, io e D. non avevamo granché di cui discutere, come se lui guardasse solo Netflix e io Rai Cinema.
Morale della favola, non ne abbiamo più parlato - né, per inciso, ci siamo più sentiti.
Le cose che si scoprono in una conversazione
Ho una discreta esperienza, ormai; non sono onniscente, sia chiaro: mi piace giocare di tutto, ma devo adattarmi alle esigenze di un gruppo di gioco che tutto è, fuorché regolare (e, complici le vite private, nemmeno poi troppo costante). Non posso insomma proporre esamine complete, né saprei sostenere conversazioni tecniche spinte; e però credo di avere un minimo di quella base necessaria per recensire - sia pure a modo mio - un titolo.
Eppure, di fronte a D., mi sentivo di nuovo come un novizio; come quando da babbano conoscevo solo
I coloni di Catan e guardavo la classifica di
BoardGameGeek. Lo sentivo parlare delle mirabolanti ultime uscite; solo che - volente o nolente - questi titoli mi suscitavano (e mi suscitano tutt'ora) molta meno curiosità di quanto non mi lasciavano quelle imberbi scorribande, perché un conto è pensare di spendere cento euro per riempire uno scomparto del
Kallax con tre o quattro vecchie glorie; un altro è pensare di investire la stessa cifra per le espansioni di giochi base tanto ingombranti, quanto insoddisfacenti.
(Non voglio entrare nel merito tecnico; non qua, almeno - e comunque non è un caso che, dopo aver aderito alla campagna di Zombicide Green Horde e ricevuto il mappazzone, questo è tutt'ora l'unico gioco che abbia mai rivenduto).
Credo sia un punto importante constatare che, allo stato attuale, il gioco da tavolo è paradossalmente molto più inaccessibile di quanto non lo fosse qualche anno fa. Lo è perlomeno se uno - come ormai è la prassi - appena arrivato volesse sentirsi subito a livello di quelli più esperti, o quantomeno aver accesso a molte più cose di quante ne avrebbe davvero bisogno.
Per restare agli sci, mi vengono in mente quelli che con supponenza arrivano dalle città per provare a sciare per la prima volta e indossano tute Colmar che io sogno da una vita e indossano scarponi rigidi come la signora Rottenmeier e si comprano sci da gara che ai loro piedi - che non sono quelli di Marcel Hirscher, e nemmeno quelli di De Aliprandini - sono potenzialmente delle armi di distruzione di massa.
La verità è che non abbiamo più l'umiltà di voler imparare, di prendere il tempo che richiede partire dalle basi, quasi come se queste ultime rubassero tempo alle ultime uscite; vogliamo subito il meglio, il gioco più figo, quello più nuovo.
Non so se D. abbia ritenuto superflua la conoscenza di certi giochi, o se magari non abbia mai avuto l'occasione di provarli, oppure se - banalmente - non gli dicano niente; resta il fatto che a lui vada bene così, e che a pormi il problema sia io.
Beninteso: può essere che uno quegli sci da gara li sappia condurre dopo poche lezioni; e però, forse, si è un po' perso il gusto di conoscere la montagna e di imparare a sciare.