Da vedere anche Still life e I figli del fume giallo di Jia Zhangke, ambientati in una Cina decisamente non da cartolina
In Tang Garden (2020), gioco competitivo degli italiani Francesco Testini e Pierluca Zizzi, impersoniamo degli ingegneri di giardini al servizio dell'imperatore, nello stile della dinastia Tang, che corrisponde alla cosiddetta prima età dell'oro cinese, dal 618 al 907 d.C.
Andremo quindi a comporre il tabellone tramite piazzamento tessere con modalità à la Carcassonne, per avanzare sulla nostra plancia personale che reca tre tracciati: acqua (azzurra, come cantava Battisti), vegetazione (verde) e roccia (marrone/ocra).
Se avanzeremo armoniosamente su codesti tracciati, riusciremo a raggiungere gli obiettivi, vale a dire invitare nuovi personaggi a visitare il giardino, i quali possiedono ognuno caratteristiche diverse, che ci daranno bonus durante la partita e monete alla fine, in base al gradimento di quello che avranno sulla loro linea di visuale.
L'ossatura del gioco è molto semplice:
- o si prende una tessera tra quelle disponibili e si piazza sul tabellone in modo legittimo, ottenendo così avanzamenti su uno dei tracciati (oppure monete se facciamo combaciare due lati sentiero);
- altrimenti possiamo scegliere di piazzare una decorazione per abbellire il giardino. In questo caso, porremo le basi per avere monete a fine partita tramite meccanica di collezione set.
La partita termina quando una delle quattro pile di tessere-giardino è esaurita, oppure quando rimangono tre o meno segnalini paesaggio sul tabellone: a questo punto, si convertono i set delle carte decorazione in monete, e anche i personaggi ci fanno ottenere monete in base a quante decorazioni hanno sulla propria linea di visuale, nonché alla preferenza di visuale. Chi ha guadagnato di più è il vincitore.
Questo gioco è stato finanziato tramite Kickstarter e pubblicato dalla ThunderGryph Games (localizzato in Italia da GateOnGames), casa editrice che da sempre ci ha abituati a prodotti dalla grafica e dai componenti ultracurati e superlusso, come Tao Long e Iwari: purtroppo ha fatto discutere proprio per essere troppo ricco di elementi tridimensionali, che limiterebbero la lettura della situazione sul tabellone. Forse quello che più ostacola è il fatto che i panorami grandi impediscano la vista di quelli piccoli subito davanti (ma dietro per chi è seduto), però va detto che il colpo d'occhio a fine partita è eccezionale: se confrontate le foto del gioco con quelle di un vero giardino in stile Tang, l'ambiente è reso benissimo. E mi sento di aggiungere che anche il fatto di dover tenere conto dell'armonia della crescita del giardino (tessere acqua/roccia/vegetazione) è un concetto caro alla filosofia orientale.
Tang Garden è ambientato dunque in Cina, e devo dire che i registi cinesi negli ultimi anni si sono dati parecchio da fare, sfornando dei film d'autore di tutto rispetto.
Vorrei farvi una panoramica di una manciata di film recenti che ho apprezzato molto e che hanno saputo sfruttare i territori e i paesaggi meno conosciuti del Paese del dragone.
Kaili Blues (id., 2015) e Un lungo viaggio nella notte (Long Day's Journey Into Night, 2018), rispettivamente opera prima e opera seconda di Bi Gan – classe 1989 -, che prende in prestito la poetica dei grandissimi del cinema d'autore, come Lynch, Carax, Wenders, Tarkovskij, Antonioni, ma anche la letteratura del vecchio continente, da Beckett a Pinter, alla mitologia greca, e mettiamoci anche la pittura perché i riferimenti a Chagall nel secondo lungometraggio sono evidenti. Caratteristici di questo autore sono i notevoli, lunghissimi piani-sequenza (41 minuti in Kaili Blues e 55 minuti in Long Day's Journey Into Night), che partono a metà film, e che ne rappresentano il cuore. Mi sono immaginata i sopralluoghi nei paesini per scegliere quelli con la struttura adatta a permettere di girare tali long-take molto elaborati. Kaili Blues è il mio preferito tra i due, l'ho trovato molto elegante con i continui riferimenti allo scorrere del tempo ciclico: ci sono numerose inquadrature di oggetti che hanno a che fare con gli orologi o che ruotano, dalle girandole ai ventilatori. Delle trame non svelo nulla, dico solo che sono entrambi ambientati a Kaili, nella provincia del Guizhou, sudest della nazione.
Non posso fare a meno di citare Yi'nan Diao, autore dei due neo-noir cinesi più acclamati di recente dalla critica, ovvero Fuochi d'artificio in pieno giorno (Black Coal, Thin Ice - Báirì yànhuǒ, 2014) e Il lago delle oche selvatiche (The Wild Goose Lake - Nánfāng chēzhàn de jùhuì, 2019), entrambi con la femme fatale Gwei Lun-Mei. Il primo è ambientato nella provincia di Heilongjiang, estremo nordest, e racconta la storia di un ex poliziotto dedito agli alcolici che cerca di indagare da solo su una serie di delitti commessi anni prima; il secondo nel tristemente noto distretto di Wuhan, quindi sudest, e parla di un gangster braccato sia dai rivali sia dalla polizia, che sarà costretto a fidarsi di una prostituta per un affare di massima importanza.
Ultimo, ma non per importanza, An Elephant Sitting Still (id. -Dà Xiàng Xídì Érzuò, 2018), forse il più difficile da vedere, per la lunghezza di 230 minuti e per il ritmo lento; è il primo e unico lungometraggio di Bo Hu, che si è tolto la vita a soli 29 anni dopo avere terminato il film. Si narra lo scorrere del tempo di una giornata nella vita dei quattro personaggi principali, i quali, per un motivo o per l'altro, desiderano andare a vedere questo circo a Manzhouli, in Manciuria, dove l'attrazione principale è un elefante che appunto siede immobile, indifferente a tutto. Il ritmo è appunto lento perché si vuol dare l'idea dell'essere girato quasi in tempo reale.
I quattro protagonisti finiscono tutti per interagire l'uno con l'altro, causando disagi e problemi agli altri, in ogni modo, anzi, alla fine della giornata ciascuno avrà la propria porzione di dolore... e noi soffriamo con loro, perché dopo quasi quattro ore passate insieme proviamo una forte compassione: il regista pone spesso la macchina da presa a fianco dei personaggi, ci sembra quasi di camminare con loro, è un punto di vista molto intimo. I temi che emergono sono la solitudine, l'incomprensione e l'egoismo delle persone nel tempo in cui viviamo. Non c'è speranza, non c'è redenzione: la visione della vita del regista era del tutto buia, mi ha ricordato qualcosa di Béla Tarr, il nichilismo de Il cavallo di Torino (A torinói ló, 2011) e la balena (che qui è un elefante) de Le armonie di Werckmeister (Werckmeister Hármoniák, 2000).