Articolo davvero interessante. Personalmente trovo la puderie tipicamente americana (ma sempre più anche europea) degli ultimi anni qualcosa tra il ridicolo e il tragico. Leggere la storia come "buoni contro cattivi" è poi proprio un'operazione grottesca.
Quella che segue è la traduzione di un articolo di Jonathan Kay pubblicato su Quillette.com, che ringraziamo per la disponibilità.
Sono otto ore e mezza di auto da Toronto a Indianapolis. E il percorso, che mi porta attraverso Sarnia, Detroit, Toledo e Fort Wayne, è tutt'altro che panoramico. Ma la Gen Con è la più grande manifestazione a tema "giochi da tavolo" in Nord America e non c'è volo diretto tra le due città. Per questo motivo, durante i primi quattro giorni di agosto, ho trascorso diciassette ore in macchina per raggiungere la sede della manifestazione, il Lucas Oil Stadium, meglio noto come la ‘casa’ degli Indianapolis Colts della NFL. Quasi settantamila giocatori hanno partecipato alla Gen Con quest'anno, inclusi i fan di ogni gioco da tavolo esistente.
Il gioco da tavolo non è una cultura. È realmente un assembramento di sottoculture differenti, poiché gli appassionati di un genere spesso nutrono poco interesse verso un altro. Ma per quanto “balcanizzato”, questo passatempo ha assunto alcune caratteristiche unificanti negli ultimi anni, tra cui l’impegno verso la “diversità”, l'inclusione e quella che potrebbe essere generalmente chiamata politica di anti-discriminazione [NdR: nell’articolo originale viene usato il termine "wokeness"]. La stessa Gen Con ha un regolamento anti-molestie che vieta "qualsiasi comportamento che [...] determini un ambiente non sicuro o non inclusivo", compresi “commenti verbali offensivi o espressioni non verbali relative a genere, identità di genere, espressioni di genere, orientamenti sessuali, disabilità, aspetto fisico, dimensioni del corpo, razza, età o credenze religiose [che] possano assumere la forma di commenti, epiteti, insulti, battute, prese in giro, visualizzazione o discussione di materiale scritto o grafico e tutto ciò che può infastidire una persona anche in forma di regali non voluti o riferimenti sessuali”. Tale regolamento inoltre vieta esplicitamente la possibilità di indossare uniformi del ventesimo e ventunesimo secolo, ma, più in generale, “qualsiasi uniforme che possa essere interpretata come divisa militare”. Dopo che un artista e designer di giochi a tema Dungeons & Dragons è stato pubblicamente accusato di abusi all'inizio del 2019, la Gen Con lo ha ufficialmente bandito dichiarando pubblicamente: "ammiriamo il coraggio delle persone che denunciano di essere state vittime di abusi o molestie e siamo qui per supportarli."
Tutto ciò suona fastidiosamente politicamente corretto e dottrinario. Ma, per essere onesti, le mani degli organizzatori sono legate, poiché la maggior parte dei partecipanti è (come in altre sottoculture “creative” di questi tempi) giovane e "consapevole". Inoltre, ci sono molte persone in costume alla Gen Con. E l'ammonimento degli organizzatori che "il cosplay NON significa consenso" è probabilmente necessario per far fronte a quegli individui – con problemi relazionali - che ancora pensano sia normale palpeggiare la tuta di una ragazza vestita da Catwoman o che si divertono a fare battute sul commercio sessuale dei suoi hotel a basso prezzo nel Baltico e nel Mediterraneo in una partita di Monopoly [NdR: in questo caso l'autore con 'Baltico' e 'Mediterraneo' si riferisce agli spazi di minore valore sul tabellone del Monopoly versione americana - corrispondenti ai nostri Vicolo Stretto e Vicolo Corto]. La seconda guerra mondiale è un tema popolare per molti giochi che sono presenti in questo tipo di manifestazioni. E pochi di noi vogliono giocare a Secret Hitler con un ragazzo vestito con un'uniforme della Gestapo, anche se assicura tutti che sta solo "creando l'atmosfera".
Ma c'è una sorta di ipocrisia "silenziosa" che attraversa questi divieti. In generale, i giochi da tavolo hanno seguito lo schema di altre sottoculture creative, come la narrativa letteraria, il teatro, la scrittura televisiva e la commedia stand-up, che ora impongono regole altrettanto restrittive sul modo in cui i partecipanti conducono ed esprimono se stessi. Tuttavia il gioco da tavolo si distingue per un aspetto importante: mentre gli appassionati di questo settore hanno creato una sottocultura che è tipicamente progressiva nelle sue dinamiche sociali, molti dei giochi attuali che intavolano si basano su temi coloniali vecchio stampo che provocherebbero terrore in qualunque altra persona facente parte di un qualsiasi altro campo creativo.
La mia visita al Gen Con si è svolta poche settimane dopo il rilascio di un importante rapporto canadese in cui si dichiarava che il nostro paese [NdR: l’autore dell’articolo originale è canadese] stava tutt’ora perpetrando un "genocidio" contro donne e ragazze indigene scomparse e assassinate, e che in effetti il Canada stesso "è stato fondato su politiche di genocidio coloniali”. Eppure, uno dei primissimi giochi che ho giocato alla Gen Con quest'anno è stato un classico del 2004, pluripremiato, chiamato Goa - un gioco di strategia in cui i giocatori assumono il ruolo di commercianti e proprietari di piantagioni del sedicesimo secolo che cercano di ottenere il massimo ritorno economico dallo sfruttamento dell’India portoghese. Mentre l'estetica del gioco è solare e astratta, ciò che è realmente accaduto a Goa (che ora esiste come stato costiero nell'India sud-occidentale) è il manifesto della classica invasione coloniale. Nel 1510, quando l'ammiraglio portoghese Afonso de Albuquerque conquistò Goa, morirono circa due terzi dei novemila musulmani a difesa del paese. Cinquant'anni dopo, i cattolici portoghesi imposero all'inquisizione di Goa di disfarsi di indù e musulmani in quanto considerati "eretici", alcuni dei quali furono così bruciati sul rogo. I missionari cristiani inoltre bruciarono libri scritti in sanscrito, arabo e altre lingue locali, una pratica che i progressisti moderni oggi non esiterebbero a definire "genocidio culturale". Inutile dire che nulla di tutto ciò è replicato nella versione del gioco da tavolo di Goa, la cui copertina rappresenta un ricco mercante in piedi di fronte a un veliero, mentre abitanti locali si occupano di caricare le navi di preziose spezie destinate all'Europa. Secondo gli standard puritani ora in vigore, per esempio la fiction “Young Adult” o il giornalismo di una qualsiasi rivista canadese, tutto ciò porterebbe a definire chiunque sia coinvolto nella creazione di Goa (ma anche chiunque lo stia giocando) come il peggior tipo di criminale finanche un apologo di genocidio.
Gli altri tre partecipanti alla Gen Con che hanno giocato a Goa con me erano dei classici ragazzi piuttosto amichevoli. Non abbiamo parlato molto di politica, ma il flusso generale di conversazione non mi ha lasciato alcun motivo per sospettare che la loro visione si discostasse dal progressismo di base dei ventenni di oggi, esibito da quasi tutti quelli che incontro a questi eventi. Certamente erano persone intelligenti (Goa non è un gioco estremamente complesso per gli standard del settore, ma è ben lungi dall'essere un party-game e quindi attira un tipo di giocatore decisamente cerebrale). E dubito che si facessero delle illusioni sulla premessa storica del gioco. Conoscevano la storia. Ma, come me, non hanno lasciato che ciò interferisse con il divertimento. Nella maggior parte dei casi, un gioco è solo un gioco. E solo perché finisco per interpretare il ruolo del cattivo in Axis & Allies non significa che nella vita reale stia pianificando di invadere la Polonia.
Quando mi sono guardato intorno al Lucas Oil Stadium, non ho visto soltanto che c’erano altri giocatori ai tavoli di Goa, ma ve ne erano altre decine intenti a giocare ad altri titoli popolari con temi simili di esplorazione, sfruttamento e conquista. Tra questi, alcuni dei più famosi giochi di strategia esistenti - come Puerto Rico, Terra Mystica, Twilight Imperium e Catan (che vede i contendenti costruire i propri imperi in una terra di nessuno fatta di roccia, campi e foreste). In un gioco molto noto, Small World, i giocatori combattono l'uno contro l'altro dopo aver prima sterminato una razza indigena vagamente definita come "tribù perduta". Il gioco non impone sanzioni su questo atto di genocidio immaginario. Al contrario: alcuni giocatori ricevono addirittura dei bonus dal perpetrare tali azioni nei confronti di tali tribù.
Ciò non è dovuto al fatto che i giocatori da tavolo siano particolarmente aggressivi di natura (sorvolando sulla questione "genocidio"), ma perché l'idea di un vasto impero ha sempre avuto un fascino intrinseco per i giocatori - anche in giochi base come Risiko e Monopoly – in quanto ci consente di interpretare un arco narrativo convenzionale che inizia con la nascita, procede con la crescita, culmina con l'eroismo e termina con la morte (preferibilmente quella dei tuoi nemici). La moderna cultura del gioco da tavolo tiene in considerazione la progressiva sensibilità politica verso certi temi, come dimostrato dal recente ritiro dalla vendita di un gioco particolarmente controverso chiamato Scramble for Africa (in cui sei giocatori competono per depredare il continente a beneficio dei colonialisti europei). Ma il tema coloniale non sarà mai completamente cancellato dai giochi: perché questi giochi sono semplicemente troppo divertenti.
Questo loro fascino duraturo ci dice anche qualcosa circa le sfide che riguardano il tentativo spesso “strombazzato” ma piuttosto vago di "decolonizzare" l'istruzione e la cultura più in generale: ci piace raccontare storie sulla “creazione” europea del Nord America moderno non solo perché in noi risiede una tradizione storica euro-centrica che enfatizza una narrazione coloniale a discapito di quella degli abitanti indigeni originari del continente (sebbene ciò fosse certamente vero fino a poco tempo fa), ma anche perché l'idea di nuovi arrivati capaci di costruire una civiltà dell'acciaio e del vetro tecnologicamente avanzata in una landa selvaggia scarsamente popolata fa presa sul nostro fascino modernista per la costruzione, il progresso, lo sviluppo, l'espansione e l'arricchimento - un fascino che si estende dal primo progetto Lego di un bambino, alle reti stradali di Catan, all'imprenditoria capitalista nella vita reale e alla pianificazione urbana pubblica. Al contrario, il fascino romantico delle società indigene all'interno della tradizione occidentale è sempre stato incentrato sulla loro atemporalità, una qualità che spesso è celebrata come ideale romantico all'interno della fiction (specialmente nella letteratura per bambini, come il Lorax del Dr.Seuss) e dell’istruzione (per esempio Grey Owl), ma è più difficile da inquadrare come parte di una narrazione dinamica all'interno di un gioco da tavolo poiché non si presta all'innovazione strategica.
A titolo di esempio, prendiamo Spirit Island, un gioco del 2017 creato dal designer americano R. Eric Reuss. In un certo senso è un gioco convenzionale di controllo area, con giocatori che combattono per conquistare territori su un'isola oceanica immaginaria. Ma il twist è già evidenziato nel sottotitolo che recita "il gioco di strategia cooperativo di distruzione dei coloni". L'idea qui è che i giocatori assumano la difesa del personaggio indigeno dell'isola, esattamente l'opposto della solita missione di esplorazione e conquista: il ruolo del cattivo qui è assegnato alle miniature dei coloni europei che compaiono casualmente sulla costa dell'isola per creare rovina e perpetrare massacri.
È un'ottima idea e applaudo Reuss per averla sviluppata. In generale, penso sempre che il modo migliore per adattarsi ai mutevoli gusti politici ed estetici non sia quello di eliminare i vecchi standard (come abbattere statue o vietare i libri), ma di crearne di nuovi che si affianchino a quelli pre-esistenti.
Sfortunatamente, quando giochi a Spirit Island ti rendi conto che l'autore è incappato in un problema, che è insito nell'idea occidentale tradizionalmente semplificato che vede le popolazioni indigene come pacifiste e amanti della natura. In definitiva, i giochi competitivi riguardano il conflitto. Ma dal momento che Reuss ha reso le popolazioni indigene di Spirit Island meri agenti passivi che combattono solo quando vengono attaccate per la prima volta dagli europei (e anche allora in modo inefficace), non sono davvero utili per i giocatori al tavolo.
Quindi, per compensare questo aspetto, Reuss ha creato una serie di divinità pagane (le chiama "spiriti") dotate di poteri fantastici contro gli invasori, con l'obiettivo di salvare le popolazioni indigene ed espellere (o uccidere) i coloni. E sono questi “spiriti” che i giocatori controllano nel corso del gioco, con le popolazioni indigene ridotte a pedine che vengono manovrate dall'autorità divina, e talvolta persino sacrificate, al fine di “ripulire” l'isola. In altre parole, per creare una narrativa avvincente che mettesse i giocatori nei panni di salvatori dei nativi, Reuss ha dovuto creare delle creature immaginarie che agiscano spietatamente - come un invasore europeo e contro quest’ultimo.
Non voglio con questo suggerire che ci sia qualcosa di intrinsecamente noioso nelle società indigene - bensì che il progetto di creare una narrazione (che è ciò che fanno i buoni giochi da tavolo) richieda generalmente al suo interno una componente cinetica. Ma sul piano simbolico più semplice, il progetto di opposizione al colonialismo, inteso attraverso l’archetipo del mito occidentale che prevede la dicotomia nobile-selvaggio, è fondamentalmente statico e passivo. Al giorno d’oggi, qualsiasi deviazione da questa “sceneggiatura” spesso invita alla critica o addirittura spinge ad accuse di razzismo.
Come è stato sottolineato in precedenza su queste pagine [NdR: l’autore si riferisce ad un suo articolo precedente], le popolazioni che gli europei hanno incontrato nelle Americhe erano combattenti abili e scaltri che spesso mettevano in fuga “gli uomini bianchi” (o peggio) nonostante il loro enorme svantaggio sia a livello tecnologico che numerico. In molti casi, le Prime Nazioni (come le chiamiamo ora in Canada) hanno combattuto ferocemente l'una contro l'altra avendo tradizioni militari ben sviluppate che gli europei temevano, ammiravano e infine adottavano. E sarebbero i perfetti protagonisti per qualsiasi designer di giochi da tavolo moderni che fosse disposto a rifiutare l'attuale modo di presentare le popolazioni indigene come santi elfi della foresta.
Come sarebbe un gioco del genere? Un buon esempio ci arriva da un titolo della GMT Games del 2019, Gandhi: The Decolonization of British India. Questo è l’ultimo capitolo della serie COIN, nata allo scopo di simulare conflitti basati sulla guerriglia o altre forme non convenzionali di guerra attraverso l'uso di carte che rappresentino eventi storici. Come in altri giochi del genere, Fire in the Lake (Vietnam), People Power - Insurgency in the Philippines, 1983-1986 (Filippine) e Colonial Twilight - The French-Algerian War, 1954-62 (Guerra d'Algeria), il gioco non si limita a presentare una banale rappresentazione del “bene” contro il “male”, ma ha una narrazione più complessa in cui tutte le parti hanno almeno alcuni ulteriori fini che sono in contrasto con la loro propaganda ufficiale. In Gandhi si gioca in quattro: un giocatore controlla il Raj, un altro il Congresso nazionale indiano, un terzo la Lega musulmana e infine il quarto è a capo dei rivoluzionari. Questi ultimi tre condividono tutti l'obiettivo di una sorta di indipendenza nazionale, ma ognuno attraverso un proprio metodo (spesso reciprocamente antagonista), con i rivoluzionari che usano la violenza per indebolire il più pacifista Congresso e la Lega musulmana che ostacola contemporaneamente Congresso, rivoluzionari e il Raj per proteggere gli interessi della minoranza islamica del paese (gli storici canadesi sottolineerebbero come la diplomazia e la guerra con e tra le Prime Nazioni furono spesso ugualmente complesse).
Il gioco è imprevedibile e complesso, dal momento che ogni giocatore persegue strategie diverse nelle diverse zone del paese, formando e rompendo alleanze “di fatto” a seconda delle circostanze. All'interno di questo gioco, per certi versi caotico, la logica morale della decolonizzazione rimane un tema centrale. Ma alla fine delle cose ti rendi conto che l'espulsione degli inglesi dall'India fu un’operazione complessa e disordinata, come in genere molti altri avvenimenti storici si sono dimostrati. Mentre Spirit Island è stato creato con l'obiettivo di integrare l'anti-colonialismo direttamente nell'esperienza di gioco, Gandhi arriva obliquamente allo stesso tema attraverso il realismo amorale, facendo dal punto di vista pedagogico un lavoro migliore.
Un aspetto chiave di Gandhi è che il Raj ha un agency: non è ridotto allo stato di automa cattivo, come avviene in Spirit Island. Ma sono posti dei limiti all'ecosistema immaginario in cui si ritrovano catapultati i giocatori: ognuno dei quattro deve assumere il proprio ruolo senza mettere in discussione l’obiettivo ultimo della propria fazione, incluso il giocatore che impersona il Raj, che deve, dall'inizio alla fine, ergersi a difesa di un progetto coloniale che oggigiorno è ampiamente visto come dalla parte sbagliata della storia. Anche le altre tre fazioni rimangono prigioniere delle loro differenze regionali, religiose e dottrinali, che, storicamente, avrebbero contribuito a causare milioni di morti nel caos che ha accompagnato l'uscita britannica dalla regione.
Il che mi porta al quarto e ultimo gioco sul tema del colonialismo di cui parlerò: l'acclamata uscita del 2017 John Company, del designer - con sede proprio in Indiana - Cole Wehrle. In teoria anche John Company è un gioco sul colonialismo britannico in India. Ma ecco il problema: i giocatori agiscono tutti come fazioni concorrenti all'interno della struttura commerciale di John Company (un soprannome della "Compagnia britannica delle Indie orientali"). Da un lato, i giocatori hanno un obiettivo cooperativo: mantenere la compagnia a galla poiché gestisce l'enorme spesa per la creazione e il funzionamento di un apparato coloniale nel subcontinente. Ma posso affermare che la maggior parte dell’energia mentale dei giocatori è spesa per scontrarsi a vicenda al fine di accaparrarsi il bottino di guerra e i proventi del commercio. In effetti, gran parte del gioco consiste nello scambio di favori e bustarelle tra i giocatori, poiché ognuno tenta di sfruttare le posizioni di potere all'interno della compagnia per ottenere entrate, perpetrare saccheggi e guadagnare posizioni di influenza.
Man mano che il gioco procede, si percepisce - quasi fosse un retro pensiero – come in India al tempo dovessero essere in atto grandi cambiamenti: sono create nuove rotte commerciali, si susseguono combattimenti militari, intere regioni vanno in rivolta per poi essere pacificate, con molte vite (immaginarie) in balia degli eventi. Ma come giocatore, ti accorgi a malapena di tutto ciò, se non nella misura in cui questi eventi possono determinare nuove fonti di ricchezza, poiché il modo in cui vinci la partita è accumulando abbastanza denaro e altri gingilli in modo da poter far ritirare i tuoi funzionari in resort dorati e case di campagna in Inghilterra. E che dire degli indiani che vivevano e morivano sotto il Raj? Non compaiono affatto nel gioco, poiché il vero fulcro del gameplay di John Company è rilegato al solipsismo corrotto del fare affari all'interno della compagnia. Il che suona orribilmente amorale. Ma quando il gioco è finito, ti rendi conto: è proprio questo il punto! I colonialisti che gestivano l'India - come quelli che venivano in Nord America e in qualsiasi altro luogo dal Sud America al Congo belga fino alla Cina - in genere non erano motivati dal desiderio di distruggere e soggiogare. Erano lì per guadagnare soldi, sia come liberi professionisti solitari in canoa, sia come burocrati che tiravano leve all'interno di un gigantesco colosso corporativo. L'omicidio e tutte le atrocità commesse, finanche i genocidi, erano un sottoprodotto dell'avidità. Il che di certo non li rende accettabili. Ma rende la narrazione più comprensibile per quanto riguarda la padronanza del nostro comportamento futuro come società umana, poiché siamo tutti vulnerabili al rimaner abbagliati dall'avidità, mentre fare del male "tanto per" è cosa rara.
I giochi ti insegnano le dinamiche della storia non elencando una serie di fatti da memorizzare, ma creando un sistema di regole che ti spinge effettivamente ad agire in un certo modo, sia come colonialista, rivoluzionario o divinità. Se il gioco è ben progettato, quelle azioni hanno una sorta di motivazione all'interno del gioco stesso. Tale logica oscura è ciò che resta con te, come spiegazione del perché alcune persone hanno agito in un certo modo in un determinato momento e contesto. È sempre facile giudicare dei personaggi storici. È più difficile, ma alla fine più interessante e prezioso, capirli.