Shogi, scacchi e l’arte della guerra

Shogi game in the tea ceremony room.
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E se astratti e wargame avessero più cose in comune di quanto si pensa?

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ShogiChess

In un recente e interessante articolo pubblicato in Tana, “Oltre German e American” di Iugal, muovendo da questioni ludo-tassonomiche si sostiene che:

“[...] non pochi titoli dei due poli estremi – astratti e wargame – condividano a loro volta vicendevolmente alcune caratteristiche. Le quali invece trovano più difficile riscontro guardando ai titoli del genere d’appartenenza: giochi per due giocatori; forte interazione, spesso diretta e distruttiva; componenti spartani e essenziali”.

In questo mio breve intervento intendo riprendere questa interessante suggestione, esplorandola ancora più a fondo. È mia idea che, ragionando oltre le classiche categorie, è possibile ritrovare motivi inattesi e fecondi di prossimità tra il mondo degli astratti e quello dei wargame. Nell’itinerario che propongo tratterò in modo specifico di Shogi e Scacchi.

Shogi e Chess

Normalmente quando durante una conversazione menziono lo Shogi, i miei interlocutori reagiscono o con una domanda (chi non lo conosce) o con un'immediata risposta (chi crede di conoscerlo). La domanda è: "cos'è lo Shogi?". La apparente risposta invece è: “lo scacchi giapponese”. Se la domanda riflette il fatto che questo antichissimo gioco di origine nipponica (e che assieme allo scacchi si colloca nell’albero evolutivo dell’ancor più antico Chaturanga indiano) è poco diffuso nell’ambito dei giochi da tavolo europei, la risposta invece tradisce un parziale e inadeguata comprensione di cosa sia effettivamente lo Shogi. In quanto segue cercherò di istituire un confronto tra i due e chiarirò il nesso che lega entrambi questi “astratti” al wargame. Il lettore tenga presente che userò il termine “Chess” per riferirmi agli scacchi europei e adopererò l’espressione “Scacchi” per indicare indistintamente sia lo Shogi che il Chess.

L’invincibile Morte e il senso della vita

La metafora degli Scacchi permea profondamente la nostra cultura dagli ambiti più pop a quelli più tecnici. Nel capolavoro di Bergman “Il settimo sigillo” il protagonista Antonius, un crociato, al rientro nella propria terra incontra la Morte e, nel tentativo di allungare ancora un po’ la propria vita al fine di ritrovarvi un senso, propone alla morte una sfida a Chess:

 

Antonius: Tu giochi a scacchi, non è vero?
Morte: Come lo sai?
Antonius: Lo so. L'ho visto nei quadri. Lo dicono le leggende.
Morte: Sì, anche questo è vero, com'è vero che non ho mai perduto un gioco.
Antonius: Forse anche la Morte può commettere un errore.

Se la Morte può sbagliare in una partita a Chess, allora la Morte può sbagliare e se la Morte può sbagliare, la vita può essere salva: è questo il presupposto da cui Antonius muove in questo suo ultimo tentativo di evitare l’inevitabile. Parlando con un monaco (che altri non è se non la Morte sotto mentite spoglie) della propria partita in corso, Antonius si lascia sfuggire dei commenti tecnici molto interessanti:

Antonius: Sì. Conosce il gioco molto bene, ma fino a questo momento, io non ho perso una pedina.
Monaco (Morte): E credi davvero che alla fine riuscirai a batterla?
Antonius: Adopero una tattica che evidentemente essa ignora. Al nostro prossimo incontro, porterò un attacco sul fianco.

In questo contesto la partita a scacchi diventa una potente metafora della esistenza umana, dello sforzo di ritrovare significato alla vita e della delusione dovuta al palesarsi dell'agghiacciante verità costituita dal fatto che la Morte è un'imbattibile giocatrice di Chess. Sconfitto dalla morte, Antonius ricerca un’ultima consolazione:

Antonius: E tu ci svelerai i tuoi segreti?
Morte: Non ho alcun segreto da svelare.
Antonius: Allora non sai niente?
Morte: Non mi serve sapere.

La Morte nulla rivela e nulla sa. Nessuna tattica vale contro la Morte: per la Morte gli Scacchi sono un gioco assolutamente trasparente e già risolto, come già risolta e conclusa è ogni esistenza umana, segnata a subire lo scacco matto sin dal suo nascere. Un gioco risolto non è altro che un gioco entro cui esiste la partita perfetta, fatta di mosse perfette: un gioco il cui esito è già segnato a partire dal suo set-up. Il peggiore e più aspro dei German, potremmo dire: aleatorietà zero, certezza assoluta, inevitabilità della sconfitta. La Morte non perde mai.

Scacchi e wargames

Ma la metafora degli scacchi ricorre potente anche in un settore ludico apparentemente molto distante dal genere degli “astratti” (a cui appunto Chess e Shogi appartengono), ossia nel boardwargame. Basti ricordare le celebri illustrazioni presenti sulle scatole di capolavori come “Twilight Struggle” e “Labyrinth” (entrambi GMT), o anche nel più oldschoolFeudal” (della Avalon Hill).     

È estremamente significativo, in questo senso, ricordare come nel film cult di Badham “Wargames - Giochi di guerra” viene raffigurata una schermata di computer con un menu di selezione in cui si spazia, in un crescendo di intensità, dal Chess alla Global Thermonuclear War: dallo scontro in astratto, allo scontro ambientato seguendo una scala crescente (Fighter Combat, Guerrilla Engagement, Desert Warfare, eccetera). 

Perché adoperare la metafora scacchistica all’interno del wargame? Come mai questo accostamento risulta spesso naturale? Peraltro accade che nei gruppi e forum dedicati al wargame, leggendo recensioni o report di partite, si adoperi l’aggettivo “scacchistico” per qualificare un gioco: cosa sta a indicare questa espressione adoperata in un contesto simile? Che vi siano evidenti analogie tra lo Scacchi e il wargame diviene chiaro se focalizziamo l’attenzione sul fatto che essi condividono alcune nozioni basilari come quelle di movimento, attacco, gittata, copertura e controllo. Eppure la faccenda non finisce qui: c’è molto di più di queste prime e ovvie analogie. Tenterò di chiarirlo nel prossimi paragrafi.

La scacchiera di Wittgenstein

Per entrare nel merito del tema dovrò prenderla un po’ alla lontana – il lettore non me ne voglia. Tuttavia non riporterò altro se non indicazioni che ci aiuteranno ad andare al fondo del problema che stiamo considerando. Inizierò dunque coll’accennare a Ludwig Wittgenstein e alle sua teoria dei giochi linguistici.

Ludwig Wittgenstein è stato uno dei più influenti filosofi del linguaggio e della logica del Novecento e ha spesso adoperato e costruito illustrazioni delle proprie tesi logico-filosofiche ricorrendo a forme e figure del Chess. In particolare Wittgenstein ha completamente demolito l’immagine del linguaggio come sistema puramente raffigurativo centrato sulla referenzialità del significato. La questione è sicuramente molto tecnica e non è il caso di affrontarla in questa sede. Tuttavia credo che un richiamo sommario alla stessa possa essere d’aiuto per ciò che affermeremo più avanti su Scacchi, wargame e giochi da tavola in generale. Semplificando un po’ possiamo dire che in base alla teoria referenziale del significato dato un nome, “N”, il significato di “N” è (identico a) ciò a cui “N" si riferisce. Da questo presupposto generale scaturisce una certa visione del linguaggio e del suo apprendimento: apprendere il significato di una parola richiede il disporre di una definizione ostensiva; occorre, cioè, che qualcuno indichi qualcosa e dica “Questo è ciò che chiamiamo X”. Ad esempio, in base a questa visione del linguaggio per apprendere il significato del termine “tavolo” è indispensabile che io venga addestrato a usare correttamente la parola “tavolo” e per farlo è necessario che qualcuno me lo indichi con una definizione ostensiva: “Ecco, questo è un tavolo”. Ebbene, se le cose stessero realmente così, osserva Wittgenstein, sarebbe impossibile apprendere un linguaggio.

E per illustrare meglio questa tesi adopera proprio l’esempio del Chess:

Mostrando a qualcuno il pezzo che rappresenta il re nel giuoco degli scacchi e dicendogli: «Questo è il re», non gli si spiega l’uso di questo pezzo – a meno che l’altro non conosca già le regole degli scacchi.

Non impariamo a giocare a Chess tramite definizioni ostensive, ma lo facciamo quando comprendiamo come usare gli elementi del Chess. Questo avviene nel Chess come in qualsiasi altro gioco: se volessi imparare a giocare a “Caylus” e il dimostratore mi dicesse semplicemente: “questo è il balivo, questo è il prevosto, questi i tuoi lavoratori”, non avrei ancora appreso un bel nulla. Inizio ad apprendere il gioco quando mi viene mostrato come adoperare i suoi pezzi.

L’analogia col Chess consente a Wittgenstein di sostenere che il significato di una parola non è il suo portatore, ma è l’uso della parola stessa, istituendo in tal modo un innovativo primato della pragmatica rispetto alla dimensione referenziale. Così come nei giochi la regola è tale all’interno di un regolamento, analogamente nel linguaggio la semantica presuppone delle regole d’uso. Non v’è quindi un unico linguaggio o “gioco linguistico”, ma ve ne sono molteplici, ognuno col suo “regolamento”, ognuno con le proprie regole d’uso, ognuno con finalità specifiche. A loro volta le regole di uso si fondano su quella che Wittgenstein chiama “forma di vita”: a ogni linguaggio corrisponde uno sfondo pragmatico che è la sua “forma di vita” entro cui esso è valido e significativo. Linguaggi diversi presuppongono forme di vita differenti e viceversa: “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo.” (Ricerche Filosofiche, II, p. 292).

Ma cosa ha a che fare questo con la questione da cui siamo partiti? Presto detto: se v’è una corrispondenza tra linguaggi e forme di vita e se il Chess (e lo Shogi) è analogo a un linguaggio, allora anche al Chess (e allo Shogi) corrisponde una specifica “forma di vita”, una Weltanschauung che il gioco stesso presuppone. È giunto dunque il momento di comprendere quale forma di vita veicolino il Chess e lo Shogi, le loro similarità e le loro differenze.

Chess, Agricola e CoIn

C’è un preciso senso in cui un set da Chess è considerabile come un ordine di battaglia. Abbiamo unità di fanteria (Pedoni), unità che colpiscono a distanza (Alfiere, Torre), unità di cavalleria che si muovono accerchiando (Cavallo), abbiamo unità di grado superiore (Regina e Re). Facciamo però attenzione anche a un altro elemento che balza agli occhi contemplando quest’ordine di battaglia: all’ordine di battaglia infatti corrisponde un ordine sociale ben definito, tipicamente europeo, in cui notiamo una precisa stratificazione del sistema di classi. Il monarca (Re) occupa il vertice della piramide, subito seguito e affiancato dalla propria consorte (Regina). A seguire ritroviamo l’Alfiere, che in inglese è “Bishop” e che sta ad indicare il connubio tra potere temporale e potere spirituale, ossia la forza sociale e politica che ha rappresentato la Chiesa nel corso della storia dell’Europa. Un gradino più in giù si possono individuare i cavalieri, che simboleggiano l’ordine equestre, quindi le torri che raffigurano le fortificazioni relative al fenomeno dell’incastellamento, fino a giungere al limite inferiore di questa piramide, occupato dai Pedoni (dallo spagnolo peones) ossia i braccianti che rappresentano la figura dell’agricola.

Spesso siamo portati a vedere il Chess in modo semplicistico: nero contro bianco, esercito contro esercito. Proprio per questo motivo trascuriamo la complessità delle trame che si celano all’interno di un singolo schieramento, vale a dire la fitta rete di relazioni che legano un pezzo all’altro, una classe sociale all’altra. Il Chess (e così anche lo Shogi) è anzitutto un gioco di diplomazia in cui la singola fazione, prima ancora di attaccare l’avversario di colore opposto, deve trovare il proprio “equilibrio interno” (la “buona forma”, come si dice nello Shogi): la vittoria “inter-cromatica” presuppone una previa pacificazione “intra-cromatica”. Combattere ed evitare l’insorgenza interna (CoIn) è la precondizione per la vittoria militare sul nemico esterno.

Ma la complessità dei rapporti che si instaurano dinamicamente sulla scacchiera sia all’interno di una singola fazione, sia tra le due fazioni in contesa, è tale da essere irriducibile. Non solo è vero che il nero non può convivere col bianco e viceversa (è proprio questo il meccanismo che genera lo scontro), ma è anche e soprattutto vero che ogni singola pacificazione è sempre fragilmente provvisoria, mai definitiva: ogni vittoria si nega di continuo (nega sé stessa) nella rivincita che si concede. Ogni pacificazione è disputabile, ogni partita è rigiocabile. Il Chess si nutre dello scontro e vive nello scontro: la pace è morte, ossia privazione di gioco.

È pertanto chiaro come nel Chess permane una visione cosmologica eraclitea per cui “Polemos è il padre di tutte le cose”: la vita si genera dalla guerra.  L’intero cosmo ha una struttura dialettico-conflittuale e diviene in tal modo teatro bellico che accoglie lo scontro perenne tra forze opposte: bianco e nero, bene e male, verità e menzogna, “noi” e “loro”. Da ultimo il Chess è una potentissima metafora di ispirazione eracliteo-manichea che ha una portata cosmologico-teologica.

Shogi, Shogun e Busho

Lo Shogi è spesso definito “Japanese Chess”, ma in realtà questa è una definizione troppo approssimativa e, come tale, cela profonde incomprensioni. Iniziamo allora con l’introdurre lo Shogi e facciamolo indicando che nello Shogi non abbiamo sei tipi di pezzi, bensì otto. Inoltre lo shogi-ban (la scacchiera) è costituito da un quadrato nove-per-nove (laddove la scacchiera del Chess è un quadrato otto-per-otto). 

Questa iniziale disparità di componentistica ha un immediato risvolto a livello di profondità di gioco: nel Chess abbiamo 10120 possibili stati di gioco mentre nello Shogi ve ne sono 10220. Lo Shogi, in modo ancor più accentuato rispetto al Chess, è un gioco in cui ciò che più conta non è tanto vedere con gli occhi del corpo (ossia vedere l’attuale, ciò che di fatto è). ma vedere con gli occhi della mente (vedere il possibile, orientarsi tra i possibilia, saperli riconoscere e individuare).

Questo richiede oltre che pratica e dedizione anche sessioni di studio teorico su strategie e tatticismi. La qual cosa, lungi dal risultare noiosa, è estremamente stimolate oltre a essere una portentosa ginnastica mentale. Inoltre vedere il proprio stile di gioco affinarsi e migliorare di sessione in sessione è una delle più grandi soddisfazioni che si possano avere nell’esperienza ludica – senza contare il fatto che le capacità strategiche apprese modificano profondamente e proficuamente anche il modo in cui poi si affrontano altre tipologie di gioco. Ma non devo parlarvi del motivo che mi ha portato ad amare l’arte dello Shogi per cui mi interrompo per riprendere subito il filo del nostro discorso principale. 

Anche nel caso dello Shogi il nome dei pezzi riporta un preciso ordine di battaglia ed è riflesso di una prospettiva politico-sociale: abbiamo il Generale Reale (Ōshō) e il Generale di giada (Gyokushō), che sono i corrispettivi del Re bianco e del Re Nero; il Generale d’oro (Kinshō), il Generale d'argento (Ginshō); il Cavallo di Katsura (Keima, simile al Cavallo del Chess); il Carro d’incenso (Kyōsha); il Motore d’angolo (Kakugyō), corrispettivo dell’Alfiere; il Carro volante (Hisha), corrispettivo della Torre; e il soldato di fanteria (Fuhyō), corrispettivo del Pedone. 

Inoltre lo Shogi presenta due peculiarità: ha uno specifico sistema di “promozione” dei pezzi (quando i pezzi raggiungono il campo avversario vengono promossi di grado acquisendo nuovi poteri) e il sistema di “paracadutaggio”. Su quest’ultimo vale la pena soffermarsi un po’ per comprenderlo meglio entro il contesto generale in cui si inserisce.

Osservando una partita di Shogi noterete che, a differenza del Chess, i pezzi sulla scacchiera non sono di colori differenti, ma hanno tutti il medesimo colore. Nero e bianco sono solo nomi con cui noi traduciamo in modo improprio il termine “Sente” (ossia il giocatore ha l’iniziativa) e il termine “Gote” (il giocatore che non ha l’iniziativa). Cosa differenzia allora i pezzi che appartengono al Sente da quelli che appartengono al Gote? Molto semplice: la direzione verso cui sono orientati.

I pezzi dello Shogi hanno infatti un verso: i pezzi del Sente sono quelli che putano contro i pezzi del Gote e viceversa. Questo significa che le fazioni non distinguono i propri pezzi in base a caratteristiche intrinseche agli stessi (come il colore), ma solo constatando i rapporti di alleanza e fedeltà: il puntare verso il medesimo nemico. È in questo quadro che si comprende bene in cosa consista la regola del paracadutaggio.

Se nel Chess i pezzi “mangiati” vengono eliminati dal gioco (salvo essere ripresi in sostituzione di altri pezzi), nello Shogi ogni pezzo “mangiato” diventa subito disponibile come rinforzo per la fazione che lo ha, appunto, mangiato. Il pezzo mangiato non è stato “ucciso”, ma ha “tradito”. Se nel Chess si rispecchia una visione dello scontro bellico tutta basata sulla eliminazione dell’avversario, nello Shogi viene simboleggiata la fragilità e temporaneità dei rapporti di alleanza: essere sconfitti significa cambiare Signore, assoggettarsi a un nuovo Shogun proprio come avveniva in modo cruento e spietato durante il sengokujidai, turbolento periodo d'incubazione dell’unità del Giappone.

Il generale MacArthur con l'imperatore Hirohito.
A questo proposito è significativo riportare come il Generale McArthur, al termine della seconda guerra mondiale, promosse in Giappone l’abolizione “di sport tradizionali quali il judo, il Kendo e persino dello Shogi […] in quanto ritenute pratiche strettamente associate alla militarizzazione e al feudalismo del Giappone interbellico” (M. Dyreson et al. (Eds), “Mapping an Empire of American Sport”, Routledge, p. 54).

Epilogo: gli Scacchi sono un wargame?

Stiamo forse dicendo che Chess e Shogi sono assimilabili ai boardwargame? Non esattamente. Non è forse vero che i boardwargame che tanto ci piacciono hanno la caratteristica di narrare delle storie, mentre Chess e Shogi non sembrano narrare nessuna storia, ossia non generano narrativa? Non è forse vero che i boardwargame si nutrono di casualità laddove Chess e Shogi ne sono privi? A queste domande occorre rispondere con ordine, in modo da non commettere nessun errore categoriale. Iniziamo da quest’ultima, la più estrinseca. 

Il caso è un modo della indeterminatezza e dell’incertezza, fattori che dicono imprevedibilità. Il caso entro il boardwargame serve a introdurre margini di imprevedibilità in quello che altrimenti sarebbe un gioco risolto in partenza: la simulazione perfetta è quella che riproduce perfettamente lo svolgersi dell’evento storico. Ma, evidentemente, la simulazione perfetta uccide il gioco.
Ciò che rende il wargame un “game”, appunto, è il fatto che venga introdotto un certo “gioco” nella storia: i meccanismi della storia devono “far gioco” per poter produrre risultati non scontati, non ovvi e non ripetitivi. Il peso ineluttabile della storia viene quindi “alleggerito” introducendo variabili libere tramite dadi, carte, schieramenti segreti e altri dispositivi che “creano gioco” alle altrimenti necessitaristiche molle del passato.

Lo Shogi e il Chess, essendo giochi a conoscenza completa e perfetta, non dispongono di dispositivi che introducano casualità. Questo però non reca detrimento al gioco: non c’è caso dato che non c’è una storia da “depotenziare”. A sua volta ciò non vuol dire che Shogi e Chess siano giochi privi di imprevedibilità e incertezza, e quindi privi di mordente.

Garri Kimovič Kasparov, campione del mondo di Chess.
Un giocatore professionista può “vedere in avanti” di circa venti mosse (tratto questo estremamente affascinante e meritevole di ulteriori approfondimenti), ma è altrettanto vero che questo vale solo per le fasi di apertura, che per un professionista risultano le più semplici da gestire. Ciò non comporta che la partita che di volta in volta si gioca sia già squadernata per intero nella mente del giocatore esperto. Gli Scacchi, a differenza ad esempio del Tris e della Dama, non sono un gioco risolto.

Veniamo alla seconda questione: i boardwargame hanno una dimensione narrativa, mentre Chess e Shogi non raccontano nulla, non hanno ambientazione. Questa osservazione è vera, ma, alla luce di quanto abbiamo indicato nei paragrafi precedenti, acquista un significato ben più ampio di quello che sembra avere a prima vista: gli Scacchi non hanno nessuna specifica ambientazione perché in un certo senso le riassumono essenzialmente tutte.

Yoshiharu Habu, 9° Dan, pluricampione di Shogi.
Yoshiharu Habu, 9° Dan, pluricampione di Shogi.
Gli Scacchi non narrano di nessuna specifica guerra, ma narrano della guerra in quanto tale, dello scontro considerato di per sé stesso. Negli Scacchi avviene qualcosa di simile all’esperienza estetica teorizzata da Schopenhauer: la contemplazione dell’arte ci mette in contatto con una realtà sublimata, ideale e paradigmatica. Nell’arte non vedo questa o quella bellezza, ma mi elevo alla visione della bellezza in sé; non vedo questa o quella guerra, ma contemplo la guerra in sé e così via.

Peraltro i protagonisti dello scontro scacchistico non sono figure storicamente individuabili, ma pure potenze, o meglio ancora pure potenzialità dinamiche. Stiamo allora dicendo che gli Scacchi sono un autentico wargame o un autentico boardgame storico? No: stiamo dicendo che se dovessimo adoperare tali categorie per definire gli Scacchi dovremmo necessariamente trascenderle. Gli Scacchi (il Chess, lo Shogi) sono in tal senso un boardgame meta-storico, o un wargame metafisico che nel non rappresentare nulla (astratto), in realtà, rappresenta tutto quanto c’è di essenziale nell’arte di Πόλεμος (Polemos).

scritto da Francesco Calemi

Commenti

Interessantissimo. Un articolo che potrebbe dare vita a dieci altri articoli.

Agzaroth scrive:

Interessantissimo. Un articolo che potrebbe dare vita a dieci altri articoli.

Ma davvero. Non so se esistano testi di filosofia del gioco da tavolo, ma direi che questo lo è.

Mi ha molto stuzzicato questa osservazione:

Ciò che rende il wargame un “game”, appunto, è il fatto che venga introdotto un certo “gioco” nella storia: i meccanismi della storia devono “far gioco” per poter produrre risultati non scontati, non ovvi e non ripetitivi. Il peso ineluttabile della storia viene quindi “alleggerito” introducendo variabili libere tramite dadi, carte, schieramenti segreti e altri dispositivi che “creano gioco” alle altrimenti necessitaristiche molle del passato.

Cioè il fatto che il wargame di natura simulativa, debba in realtà partire da una premessa che è agli antipodi del suo stesso obiettivo perché altrimenti non ci sarebbe il gioco, in quanto la storia andrebbe dove è andata storicamente. Non a caso si dice che la storia non si fa con i se e con i ma. In effetti, non penso siano molti i casi in cui l'andamento storico è stato deciso da variabili che si sarebbero potute cambiare "al momento". Anzi, in molti casi (penso), se chi decideva le sorti avesse fatto scelte diverse, probabilmente si sarebbe giunti alla stessa conclusione magari attraverso vie non esattamente coincidenti con quelle storicamente verificatesi.

Faccio un esempio, che non so quanto chiaro sono stato: nel momento in cui gli USA sono entrati nel secondo conflitto mondiale, la sproporzione tra le risorse a disposizione di asse e alleati era tale che probabilmente anche se i generali o i capi di stato avessero fatto scelte diverse, probabilmente la Germania sarebbe stata sconfitta lo stesso. Magari non con lo sbarco in Normandia, ma si sarebbe finiti senza dubbio là.

Ecco, mi incuriosisce molto che in realtà l'esperienza che cerca il giocatore, di simulazione e immersività totale, passi attraverso una necessaria sospensione dell'incredulità sulle premesse del gioco stesso.

Danebed scrive:

Cioè il fatto che il wargame di natura simulativa, debba in realtà partire da una premessa che è agli antipodi del suo stesso obiettivo perché altrimenti non ci sarebbe il gioco, in quanto la storia andrebbe dove è andata storicamente. Non a caso si dice che la storia non si fa con i se e con i ma. In effetti, non penso siano molti i casi in cui l'andamento storico è stato deciso da variabili che si sarebbero potute cambiare "al momento". Anzi, in molti casi (penso), se chi decideva le sorti avesse fatto scelte diverse, probabilmente si sarebbe giunti alla stessa conclusione magari attraverso vie non esattamente coincidenti con quelle storicamente verificatesi.

Faccio un esempio, che non so quanto chiaro sono stato: nel momento in cui gli USA sono entrati nel secondo conflitto mondiale, la sproporzione tra le risorse a disposizione di asse e alleati era tale che probabilmente anche se i generali o i capi di stato avessero fatto scelte diverse, probabilmente la Germania sarebbe stata sconfitta lo stesso. Magari non con lo sbarco in Normandia, ma si sarebbe finiti senza dubbio là.

Ecco, mi incuriosisce molto che in realtà l'esperienza che cerca il giocatore, di simulazione e immersività totale, passi attraverso una necessaria sospensione dell'incredulità sulle premesse del gioco stesso.

Su questo punto ci sarebbe ampiamente da discutere e sarebbe anche bello farlo, ma non qui, forse sul forum.

E non mi riferisco in particolare alla seconda guerra mondiale, ma in generale al concetto espresso, che io non condivido, ma che è interessante e potrebbe essere lo spunto per una ricca discussione di teoria militare

Approfondimento corposo, bravo!

Approfondmento interessante e profondo.

Significativa delle due culture - quella occidentale e quella orientale - la sorte che tocca ai pezzi mangiati?... Da un punto di vista di bilanciamento del gioco, negli scacchi chi mangia elimina un pezzo all'avversario ma non guadagna altro, mentre nello shogi ci guadagna il pezzo mangiato. La regola non rischia di incentivare dinamiche di runaway leader/runaway loser? (Non ho mai giocato a shogi). Domanda un po' retorica, considerando la mole di playtest a cui è stato sottoposto il gioco.

Nell'articolo viene poi sfiorato un altro interessante tema, sempre di carattere filosofico: quello dell'arte, del gioco come forma d'arte. Fa riaffiorare i miei studi di estetica ed è un tema che mi frulla sempre in testa...

Semplicemente immenso. Complimenti Frank

Complimenti. Bellissimo articolo.

interessante ma noioso come articolo, sembra più una opera di dante che un articolo che spiega lo shogi, va troppo  nella storia e mischia certe cose che non hanno nessuna relazione col gioco dello shogi, non invita ne anche avere la voglia d'imparare lo shogi,  troppo centrato nei giochi da tavolo come wargames e simili, peccato, tempo perso in questo articolo

joelin_merino scrive:

interessante ma noioso come articolo, sembra più una opera di dante che un articolo che spiega lo shogi, va troppo  nella storia e mischia certe cose che non hanno nessuna relazione col gioco dello shogi, non invita ne anche avere la voglia d'imparare lo shogi,  troppo centrato nei giochi da tavolo come wargames e simili, peccato, tempo perso in questo articolo

spiegare lo Shogi non era lo scopo dell'articolo...

come hai detto, che spiegare lo shogi non era lo scopo dell'articolo, allora perchè cerca di farlo?  si vede che quello non conosce bene il gioco anche ha un altra idea in testa, lo shogi non è un gioco come il monopoly , rischio, ecc, ecc,   è molto diverso,  se uno non sa o non conosce un argomento, allora meglio non dire nulla e solo opinare quando si sa e conosce qualcosa, sarebbe come dire che  spiegi i rischi di un intervento al cuore quando  hai una settimana di studi di medicina, ogn'uno  rimane in quello che sa e si vede  che lui non sa il gioco ancora, viva lo shogun,  per favore.

No, mi sa che sei tu a non aver capito granché dell'articolo: Francesco il gioco lo conosce eccome.

non ci credo, inventare nomi  e  dire viva lo shogun, non ti fa conoscere il gioco,  ci sono altre persone che lo conoscono meglio di lui,  lui e troppo chiuso nel mondo dei wargame, poi qualsiasi può scrivere un articolo, hahahahahahahaha

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