Interessantissimo. Un articolo che potrebbe dare vita a dieci altri articoli.
In un recente e interessante articolo pubblicato in Tana, “Oltre German e American” di Iugal, muovendo da questioni ludo-tassonomiche si sostiene che:
“[...] non pochi titoli dei due poli estremi – astratti e wargame – condividano a loro volta vicendevolmente alcune caratteristiche. Le quali invece trovano più difficile riscontro guardando ai titoli del genere d’appartenenza: giochi per due giocatori; forte interazione, spesso diretta e distruttiva; componenti spartani e essenziali”.
In questo mio breve intervento intendo riprendere questa interessante suggestione, esplorandola ancora più a fondo. È mia idea che, ragionando oltre le classiche categorie, è possibile ritrovare motivi inattesi e fecondi di prossimità tra il mondo degli astratti e quello dei wargame. Nell’itinerario che propongo tratterò in modo specifico di Shogi e Scacchi.
Shogi e Chess
Normalmente quando durante una conversazione menziono lo Shogi, i miei interlocutori reagiscono o con una domanda (chi non lo conosce) o con un'immediata risposta (chi crede di conoscerlo). La domanda è: "cos'è lo Shogi?". La apparente risposta invece è: “lo scacchi giapponese”. Se la domanda riflette il fatto che questo antichissimo gioco di origine nipponica (e che assieme allo scacchi si colloca nell’albero evolutivo dell’ancor più antico Chaturanga indiano) è poco diffuso nell’ambito dei giochi da tavolo europei, la risposta invece tradisce un parziale e inadeguata comprensione di cosa sia effettivamente lo Shogi. In quanto segue cercherò di istituire un confronto tra i due e chiarirò il nesso che lega entrambi questi “astratti” al wargame. Il lettore tenga presente che userò il termine “Chess” per riferirmi agli scacchi europei e adopererò l’espressione “Scacchi” per indicare indistintamente sia lo Shogi che il Chess.
L’invincibile Morte e il senso della vita
La metafora degli Scacchi permea profondamente la nostra cultura dagli ambiti più pop a quelli più tecnici. Nel capolavoro di Bergman “Il settimo sigillo” il protagonista Antonius, un crociato, al rientro nella propria terra incontra la Morte e, nel tentativo di allungare ancora un po’ la propria vita al fine di ritrovarvi un senso, propone alla morte una sfida a Chess:
Antonius: Tu giochi a scacchi, non è vero?
Morte: Come lo sai?
Antonius: Lo so. L'ho visto nei quadri. Lo dicono le leggende.
Morte: Sì, anche questo è vero, com'è vero che non ho mai perduto un gioco.
Antonius: Forse anche la Morte può commettere un errore.
Se la Morte può sbagliare in una partita a Chess, allora la Morte può sbagliare e se la Morte può sbagliare, la vita può essere salva: è questo il presupposto da cui Antonius muove in questo suo ultimo tentativo di evitare l’inevitabile. Parlando con un monaco (che altri non è se non la Morte sotto mentite spoglie) della propria partita in corso, Antonius si lascia sfuggire dei commenti tecnici molto interessanti:
Antonius: Sì. Conosce il gioco molto bene, ma fino a questo momento, io non ho perso una pedina.
Monaco (Morte): E credi davvero che alla fine riuscirai a batterla?
Antonius: Adopero una tattica che evidentemente essa ignora. Al nostro prossimo incontro, porterò un attacco sul fianco.
In questo contesto la partita a scacchi diventa una potente metafora della esistenza umana, dello sforzo di ritrovare significato alla vita e della delusione dovuta al palesarsi dell'agghiacciante verità costituita dal fatto che la Morte è un'imbattibile giocatrice di Chess. Sconfitto dalla morte, Antonius ricerca un’ultima consolazione:
Antonius: E tu ci svelerai i tuoi segreti?
Morte: Non ho alcun segreto da svelare.
Antonius: Allora non sai niente?
Morte: Non mi serve sapere.
La Morte nulla rivela e nulla sa. Nessuna tattica vale contro la Morte: per la Morte gli Scacchi sono un gioco assolutamente trasparente e già risolto, come già risolta e conclusa è ogni esistenza umana, segnata a subire lo scacco matto sin dal suo nascere. Un gioco risolto non è altro che un gioco entro cui esiste la partita perfetta, fatta di mosse perfette: un gioco il cui esito è già segnato a partire dal suo set-up. Il peggiore e più aspro dei German, potremmo dire: aleatorietà zero, certezza assoluta, inevitabilità della sconfitta. La Morte non perde mai.
Scacchi e wargames
È estremamente significativo, in questo senso, ricordare come nel film cult di Badham “Wargames - Giochi di guerra” viene raffigurata una schermata di computer con un menu di selezione in cui si spazia, in un crescendo di intensità, dal Chess alla Global Thermonuclear War: dallo scontro in astratto, allo scontro ambientato seguendo una scala crescente (Fighter Combat, Guerrilla Engagement, Desert Warfare, eccetera).
La scacchiera di Wittgenstein
Per entrare nel merito del tema dovrò prenderla un po’ alla lontana – il lettore non me ne voglia. Tuttavia non riporterò altro se non indicazioni che ci aiuteranno ad andare al fondo del problema che stiamo considerando. Inizierò dunque coll’accennare a Ludwig Wittgenstein e alle sua teoria dei giochi linguistici.Ludwig Wittgenstein è stato uno dei più influenti filosofi del linguaggio e della logica del Novecento e ha spesso adoperato e costruito illustrazioni delle proprie tesi logico-filosofiche ricorrendo a forme e figure del Chess. In particolare Wittgenstein ha completamente demolito l’immagine del linguaggio come sistema puramente raffigurativo centrato sulla referenzialità del significato. La questione è sicuramente molto tecnica e non è il caso di affrontarla in questa sede. Tuttavia credo che un richiamo sommario alla stessa possa essere d’aiuto per ciò che affermeremo più avanti su Scacchi, wargame e giochi da tavola in generale. Semplificando un po’ possiamo dire che in base alla teoria referenziale del significato dato un nome, “N”, il significato di “N” è (identico a) ciò a cui “N" si riferisce. Da questo presupposto generale scaturisce una certa visione del linguaggio e del suo apprendimento: apprendere il significato di una parola richiede il disporre di una definizione ostensiva; occorre, cioè, che qualcuno indichi qualcosa e dica “Questo è ciò che chiamiamo X”. Ad esempio, in base a questa visione del linguaggio per apprendere il significato del termine “tavolo” è indispensabile che io venga addestrato a usare correttamente la parola “tavolo” e per farlo è necessario che qualcuno me lo indichi con una definizione ostensiva: “Ecco, questo è un tavolo”. Ebbene, se le cose stessero realmente così, osserva Wittgenstein, sarebbe impossibile apprendere un linguaggio.
E per illustrare meglio questa tesi adopera proprio l’esempio del Chess:Mostrando a qualcuno il pezzo che rappresenta il re nel giuoco degli scacchi e dicendogli: «Questo è il re», non gli si spiega l’uso di questo pezzo – a meno che l’altro non conosca già le regole degli scacchi.
Non impariamo a giocare a Chess tramite definizioni ostensive, ma lo facciamo quando comprendiamo come usare gli elementi del Chess. Questo avviene nel Chess come in qualsiasi altro gioco: se volessi imparare a giocare a “Caylus” e il dimostratore mi dicesse semplicemente: “questo è il balivo, questo è il prevosto, questi i tuoi lavoratori”, non avrei ancora appreso un bel nulla. Inizio ad apprendere il gioco quando mi viene mostrato come adoperare i suoi pezzi.
L’analogia col Chess consente a Wittgenstein di sostenere che il significato di una parola non è il suo portatore, ma è l’uso della parola stessa, istituendo in tal modo un innovativo primato della pragmatica rispetto alla dimensione referenziale. Così come nei giochi la regola è tale all’interno di un regolamento, analogamente nel linguaggio la semantica presuppone delle regole d’uso. Non v’è quindi un unico linguaggio o “gioco linguistico”, ma ve ne sono molteplici, ognuno col suo “regolamento”, ognuno con le proprie regole d’uso, ognuno con finalità specifiche. A loro volta le regole di uso si fondano su quella che Wittgenstein chiama “forma di vita”: a ogni linguaggio corrisponde uno sfondo pragmatico che è la sua “forma di vita” entro cui esso è valido e significativo. Linguaggi diversi presuppongono forme di vita differenti e viceversa: “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo.” (Ricerche Filosofiche, II, p. 292).
Ma cosa ha a che fare questo con la questione da cui siamo partiti? Presto detto: se v’è una corrispondenza tra linguaggi e forme di vita e se il Chess (e lo Shogi) è analogo a un linguaggio, allora anche al Chess (e allo Shogi) corrisponde una specifica “forma di vita”, una Weltanschauung che il gioco stesso presuppone. È giunto dunque il momento di comprendere quale forma di vita veicolino il Chess e lo Shogi, le loro similarità e le loro differenze.
Chess, Agricola e CoIn
Spesso siamo portati a vedere il Chess in modo semplicistico: nero contro bianco, esercito contro esercito. Proprio per questo motivo trascuriamo la complessità delle trame che si celano all’interno di un singolo schieramento, vale a dire la fitta rete di relazioni che legano un pezzo all’altro, una classe sociale all’altra. Il Chess (e così anche lo Shogi) è anzitutto un gioco di diplomazia in cui la singola fazione, prima ancora di attaccare l’avversario di colore opposto, deve trovare il proprio “equilibrio interno” (la “buona forma”, come si dice nello Shogi): la vittoria “inter-cromatica” presuppone una previa pacificazione “intra-cromatica”. Combattere ed evitare l’insorgenza interna (CoIn) è la precondizione per la vittoria militare sul nemico esterno.
Ma la complessità dei rapporti che si instaurano dinamicamente sulla scacchiera sia all’interno di una singola fazione, sia tra le due fazioni in contesa, è tale da essere irriducibile. Non solo è vero che il nero non può convivere col bianco e viceversa (è proprio questo il meccanismo che genera lo scontro), ma è anche e soprattutto vero che ogni singola pacificazione è sempre fragilmente provvisoria, mai definitiva: ogni vittoria si nega di continuo (nega sé stessa) nella rivincita che si concede. Ogni pacificazione è disputabile, ogni partita è rigiocabile. Il Chess si nutre dello scontro e vive nello scontro: la pace è morte, ossia privazione di gioco.
È pertanto chiaro come nel Chess permane una visione cosmologica eraclitea per cui “Polemos è il padre di tutte le cose”: la vita si genera dalla guerra. L’intero cosmo ha una struttura dialettico-conflittuale e diviene in tal modo teatro bellico che accoglie lo scontro perenne tra forze opposte: bianco e nero, bene e male, verità e menzogna, “noi” e “loro”. Da ultimo il Chess è una potentissima metafora di ispirazione eracliteo-manichea che ha una portata cosmologico-teologica.
Shogi, Shogun e Busho
Questa iniziale disparità di componentistica ha un immediato risvolto a livello di profondità di gioco: nel Chess abbiamo 10120 possibili stati di gioco mentre nello Shogi ve ne sono 10220. Lo Shogi, in modo ancor più accentuato rispetto al Chess, è un gioco in cui ciò che più conta non è tanto vedere con gli occhi del corpo (ossia vedere l’attuale, ciò che di fatto è). ma vedere con gli occhi della mente (vedere il possibile, orientarsi tra i possibilia, saperli riconoscere e individuare).
Questo richiede oltre che pratica e dedizione anche sessioni di studio teorico su strategie e tatticismi. La qual cosa, lungi dal risultare noiosa, è estremamente stimolate oltre a essere una portentosa ginnastica mentale. Inoltre vedere il proprio stile di gioco affinarsi e migliorare di sessione in sessione è una delle più grandi soddisfazioni che si possano avere nell’esperienza ludica – senza contare il fatto che le capacità strategiche apprese modificano profondamente e proficuamente anche il modo in cui poi si affrontano altre tipologie di gioco. Ma non devo parlarvi del motivo che mi ha portato ad amare l’arte dello Shogi per cui mi interrompo per riprendere subito il filo del nostro discorso principale.
Inoltre lo Shogi presenta due peculiarità: ha uno specifico sistema di “promozione” dei pezzi (quando i pezzi raggiungono il campo avversario vengono promossi di grado acquisendo nuovi poteri) e il sistema di “paracadutaggio”. Su quest’ultimo vale la pena soffermarsi un po’ per comprenderlo meglio entro il contesto generale in cui si inserisce.
I pezzi dello Shogi hanno infatti un verso: i pezzi del Sente sono quelli che putano contro i pezzi del Gote e viceversa. Questo significa che le fazioni non distinguono i propri pezzi in base a caratteristiche intrinseche agli stessi (come il colore), ma solo constatando i rapporti di alleanza e fedeltà: il puntare verso il medesimo nemico. È in questo quadro che si comprende bene in cosa consista la regola del paracadutaggio.
Se nel Chess i pezzi “mangiati” vengono eliminati dal gioco (salvo essere ripresi in sostituzione di altri pezzi), nello Shogi ogni pezzo “mangiato” diventa subito disponibile come rinforzo per la fazione che lo ha, appunto, mangiato. Il pezzo mangiato non è stato “ucciso”, ma ha “tradito”. Se nel Chess si rispecchia una visione dello scontro bellico tutta basata sulla eliminazione dell’avversario, nello Shogi viene simboleggiata la fragilità e temporaneità dei rapporti di alleanza: essere sconfitti significa cambiare Signore, assoggettarsi a un nuovo Shogun proprio come avveniva in modo cruento e spietato durante il sengokujidai, turbolento periodo d'incubazione dell’unità del Giappone.
Epilogo: gli Scacchi sono un wargame?
Stiamo forse dicendo che Chess e Shogi sono assimilabili ai boardwargame? Non esattamente. Non è forse vero che i boardwargame che tanto ci piacciono hanno la caratteristica di narrare delle storie, mentre Chess e Shogi non sembrano narrare nessuna storia, ossia non generano narrativa? Non è forse vero che i boardwargame si nutrono di casualità laddove Chess e Shogi ne sono privi? A queste domande occorre rispondere con ordine, in modo da non commettere nessun errore categoriale. Iniziamo da quest’ultima, la più estrinseca.
Lo Shogi e il Chess, essendo giochi a conoscenza completa e perfetta, non dispongono di dispositivi che introducano casualità. Questo però non reca detrimento al gioco: non c’è caso dato che non c’è una storia da “depotenziare”. A sua volta ciò non vuol dire che Shogi e Chess siano giochi privi di imprevedibilità e incertezza, e quindi privi di mordente.
Veniamo alla seconda questione: i boardwargame hanno una dimensione narrativa, mentre Chess e Shogi non raccontano nulla, non hanno ambientazione. Questa osservazione è vera, ma, alla luce di quanto abbiamo indicato nei paragrafi precedenti, acquista un significato ben più ampio di quello che sembra avere a prima vista: gli Scacchi non hanno nessuna specifica ambientazione perché in un certo senso le riassumono essenzialmente tutte.
Peraltro i protagonisti dello scontro scacchistico non sono figure storicamente individuabili, ma pure potenze, o meglio ancora pure potenzialità dinamiche. Stiamo allora dicendo che gli Scacchi sono un autentico wargame o un autentico boardgame storico? No: stiamo dicendo che se dovessimo adoperare tali categorie per definire gli Scacchi dovremmo necessariamente trascenderle. Gli Scacchi (il Chess, lo Shogi) sono in tal senso un boardgame meta-storico, o un wargame metafisico che nel non rappresentare nulla (astratto), in realtà, rappresenta tutto quanto c’è di essenziale nell’arte di Πόλεμος (Polemos).
scritto da Francesco Calemi