Attenzione! Per i temi trattati nella parte relativa ai film, si sconsiglia la lettura ai minori di 18 anni e alle persone particolarmente sensibili.
The Lost Expedition, gioco del 2017 di Peer "König von Siam" Sylvester, edito da Osprey Games (in Italia localizzato di recente da Studio Supernova col titolo La spedizione perduta), è un cooperativo puro (ma c'è anche una versione competitiva a squadre) per 1-5 giocatori, in cui ripercorriamo le imprese di un gruppo di esploratori realmente esistito, guidato dall'archeologo inglese Percy Fawcett, e scomparso nel nulla mentre era alla ricerca della città perduta di El Dorado, in Amazzonia, nel 1925.
Il percorso che andremo a intraprendere è composto da una serie di carte affiancate, che raffigura una foresta intricata: il numero delle carte dipende dalla difficoltà scelta. Ogni turno si compone di una fase mattino e una fase notte.
Nella fase mattino, ogni giocatore sceglie due carte dalla propria mano, che verranno giocate in ordine crescente in base al numero sulla carta stessa; nella fase notte, invece, le carte verrano giocate nell'ordine di scelta.
È vietato parlare di quali carte si hanno in mano, però si può discutere a mano a mano che le carte vengono scelte e messe sul tavolo, di modo da arginare il problema del giocatore dominante, permettendo comunque una pianificazione. Ogni carta, oltre a illustrare un evento, ha un numero variabile di riquadri, di tre colori: i gialli segnalano qualcosa che è obbligatorio fare, i blu qualcosa di opzionale, i rossi sono sempre più di uno e indicano l'obbligo di una scelta tra varie opzioni, solitamente tutte nefaste. È bene pianificare la sequenza delle carte nel modo migliore possibile, perché alcune danno la possibilità di eliminarne altre, oppure di scambiarle di posto.
Le azioni che le carte richiedono sono di togliere - per la maggior parte delle volte - o aggiungere segnalini ai nostri personaggi, che si "affaticheranno" sempre di più, alcune carte infine ci permettono di avanzare lentamente e faticosamente il nostro meeple nel fitto della foresta, fino a destinazione. Dopo ogni fase giorno e notte dovremo consumare un segnalino cibo per nutrire la spedizione.
Vinceremo se almeno qualcuno riuscirà a raggiungere la destinazione finale della città perduta, perderemo se tutti i personaggi in gioco (sono tre, ognuno con una specializzazione diversa) muoiono esaurendo le proprie risorse, oppure se finirà il tempo a disposizione, tempo che in questo caso viene scandito dall'esaurimento per la seconda volta del mazzo di carte evento.
Le illustrazioni del creatore di fumetti Garen Ewing, che raffigurano i diversi pericoli affrontati dai nostri avventurieri, riescono ad ambientare piuttosto bene questo gioco, che in fin dei conti è composto di carte e segnalini risorsa.
L'edizione italiana si differenzia da quella inglese per completezza: include già tutte le espansioni e le carte promo.
Prima dell'abbinamento cinematografico, faccio una breve divagazione letteraria. Forse non tutti hanno avuto modo di conoscere le letterature postcoloniali in lingua inglese, in questo caso mi riferisco a Patrick White (1912-1990), di nazionalità australiana, premio Nobel per la letteratura nel 1973. Il suo romanzo più famoso si intitola Voss (L'esploratore Voss, 1957) ed è ispirato alla seconda spedizione del tedesco Ludwig Leichhardt, che era intenzionato a fare una mappatura dell'Outback australiano, attraversandolo da Brisbane a Perth. Qualcosa andò storto, e della spedizione, composta da cinque europei più due aborigeni, non si seppe più nulla. White è considerato il liberatore degli scrittori australiani: li ha affrancati dalla schiavitù dei triti modelli letterari della Madrepatria, spianando la strada e indicando la via per esprimere finalmente un punto di vista personale.
Mi addentro ora a colpi di machete nella giungla dei film, e abbino innanzitutto Cannibal Holocaust (id., 1980), di Ruggero Deodato, precursore e capostipite del genere mockumentary, vale a dire quei film che copiano le cifre stilistiche del documentario ma che comunque sono finzione, nonché innovatore del genere horror con il sottogenere cannibal. Si narra di un gruppo di quattro reporter che vengono incaricati di filmare un documentario sulle popolazioni cannibali nel fitto della foresta amazzonica: di loro non si sa più nulla. Viene mandata una seconda spedizione a cercarli, ma troveranno solo i loro scheletri e il materiale girato. Anche se ha qualche decennio sulle spalle, questo film rientra spesso nelle liste dei migliori film horror made in Italy, per il messaggio che alla fine lascia nello spettatore attento, con una feroce critica al sistema mediatico.
La produzione spinse molto sulla novità del mockumentary: vennero usati due formati di pellicola diversi, 35mm per la prima parte, intitolata The Last Road to Hell, 16mm per la seconda, The Green Inferno, che venne ulteriormente graffiata per simulare l'autenticità della storia del ritrovamento nella giungla. Inoltre gli attori, da contratto, non si sarebbero dovuti far vedere in giro per due anni, come se le vicende fossero davvero accadute... tanto che Deodato si vide costretto a presentarsi in questura con Luca Barbareschi (sì, proprio lui, non è un errore - N.d.A.), uno dei protagonisti, per far vedere che non era morto davvero e far decadere le accuse di aver girato uno snuff movie.
Il regista fu condannato ugualmente a quattro mesi di prigione con la condizionale, per maltrattamenti agli animali. Purtroppo, infatti, mi sento in dovere di ricordare che le uccisioni degli animali che si vedono sono vere, ma che gli animali in questione divennero cibo per gli indigeni, che vivono normalmente della loro caccia. All'epoca era considerato nella norma uccidere animali ai fini di girare una pellicola (ricordo ad esempio il maiale de L'albero degli zoccoli di Olmi, 1978). Per fortuna queste inutili barbarie non avvengono più.
Per chi ha lo stomaco allenato agli horror contemporanei, l'evoluzione di Cannibal Holocaust è sicuramente The Green Inferno di Eli Roth (id., 2013), che riprende nel titolo la seconda parte del film di Deodato (un cult movie per il regista americano, amico di Tarantino) dove abbiamo un gruppo di ragazzi, attivisti ambientalisti, che partono per l'Amazzonia per salvare una popolazione locale minacciata dall'estinzione a causa dell'imminente arrivo dei bulldozer per disboscare la foresta. Anche loro, come i precursori reporter, filmano tutto diligentemente, stavolta con lo smartphone, salvo poi precipitare con l'aereo nella giungla peruviana e finire preda proprio delle popolazioni che volevano proteggere, che si rivelano essere cannibali.
Ripeto: The Green Inferno è solo per stomaci forti, appartiene al sottogenere horror del torture porn, inaugurato da Roth stesso con Hostel (id., 2005). Sono film che mostrano violenza esplicita, sevizie e corpi smembrati ripresi in modo voyeuristico ed estremamente realistico, però qui il regista, al contrario dei due suoi film ambientati in un ostello, riesce a essere dissacrante e politico (è la funzione ultima dell'horror, dopotutto) sullo sfruttamento dei giovani da parte di organizzazioni senza scrupoli, sul citizen-journalism, e lo fa in modo intelligente, ribaltando continuamente le situazioni e, di conseguenza, facendoci riflettere.
Dal punto di vista cromatico l'inferno dipinto da Roth è rosso (per il sangue, sì, ma anche per il modo in cui si colorano la pelle gli indigeni), colore che ci segnala subito "Pericolo!" e verde, un verde meravigliosamente abbagliante come la foresta pluviale, colore quest'ultimo che dovrebbe ispirare calma e tranquillità, invece si trasforma in una trappola mortale.
Forse non tutti sanno che... il regista Eli Roth, per far capire alla popolazione che vediamo nel film che cosa volesse dire "recitare", allestì per loro la proiezione proprio di Cannibal Holocaust.
Colonna sonora (per sdrammatizzare): The Platters The Lion Sleeps Tonight del 1961, Jethro Tull Bungle (In the Jungle) del 1974, Aqua Doctor Jones del 1997.
P.S.: si ringraziano il Signor Darcy per avermi fatto provare il gioco e Giangi che ha giocato con noi.